Che cos’ è la felicità?

Quella sulla felicità è sicuramente una delle domande più antiche dell’uomo e, forse, non avrà mai una risposta definitiva, dando per scontato che la felicità esista e sia qualcosa di raggiungibile. Non sembra pensarla così il disegnatore creativo Steve Cutts che nel suo cortometraggio animato dal titolo “happiness”, che in inglese significa “felicità”, mette in evidenza tutta una serie di comportamenti individuali e di massa che solo apparentemente conducono alla felicità ma che, invece, sono dei surrogati presto destinati a lasciare il posto a un vuoto incolmabile. La felicità del facile consumo, dei prodotti, degli oggetti, dell’alcool e delle droghe che di volta in volta vengono sperimentate dal protagonista, nascondono in realtà l’insoddisfazione di una vita che vorrebbe raggiungere la felicità, ma che invece offre solo la tragica realtà dell’omologazione e dell’alienazione.

 

Per l’uomo contemporaneo il rischio di non essere felice è più che reale e allora proprio partendo dal cortometraggio summenzionato, proviamo ad affrontare il tema della felicità proprio attraverso un viaggio nella filosofia, incontrando grandi uomini come Socrate, Epicuro che, invece, hanno indicato all’uomo la strada per essere felici. Può ancora essere attuale il loro messaggio? Ma partiamo proprio da Socrate, filosofo al quale si deve sicuramente una vera e propria rivoluzione nel pensiero occidentale, passato dalla ricerca sull’arché dei primi filosofi a quella sull’uomo. “So di non sapere” era questo il motto del sileno, scaturito a quanto pare a seguito di quanto appreso dall’Oracolo di Delfi.  Socrate concepisce la filosofia come ricerca e dialogo sui problemi dell’uomo. Egli affronta e discute le tematiche della propria umanità, in modo tale da poter rintracciare il significato profondo dell’esser uomo. Dunque, la filosofia di Socrate consiste in una ricerca continua di se stessi e della verità, e questo percorso finisce per coincidere con la felicità: colui che durante la sua vita non ha mai smesso di fare ricerca sarà un uomo virtuoso e felice, mentre il non virtuoso, ovvero colui che non ha ragionato abbastanza, sarà un uomo infelice che si abbandonerà ad istinti infelici. Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dirà Socrate, con ciò intendendo che la felicità dell’uomo dipende esclusivamente da quanto lui stesso sia in grado di rispettare la propria natura, che è appunto quella di cercare la verità. In tale ottica più che un risultato concreto da raggiungere, mi sembra che la felicità consista piuttosto nell’atto stesso della ricerca, quindi qualcosa di dinamico e non statico, quello che in francese si dice je suis en train. Platone, invece, riporta la questione della felicità su un piano strettamente politico, aspetto affrontato principalmente nella Repubblica dove il filosofo, nel tracciare la descrizione del suo Stato ideale, fa riferimento preciso ad una organizzazione fondata su tre classi: i governanti, i quali sono uomini saggi e possiedono un’anima razionale; i guerrieri, coloro che sono caratterizzati dal coraggio e hanno un’anima irascibile e i lavoratori, uomini che hanno temperanza e un’anima concupiscibile. Se le tre classi adempiranno al compito che gli spetta loro, ci sarà giustizia. Inoltre essi saranno uomini felici in quanto hanno fatto del bene per lo Stato e lo hanno reso armonioso. Quindi, saranno uomini che non necessitano di beni materiali come le terre, le magnifiche case, l’oro, poiché sono felici già di per sé. Anche qui, quindi, la felicità sembra coincidere con l’assolvere al proprio compito, assecondando la propria natura. Per Aristotele, invece, così come emerge dall’Etica Nicomachea, la felicità non è uno stato d’animo ma piuttosto un’attività che nulla ha a che fare con il piacere e che sopraggiunge in seguito un’attività riuscita. L’idea che emerge è quella di una felicità che si raggiunge con la vita attiva, con il voler fare e non come qualcosa da attendere. La situazione cambia con gli stoici, gli epicurei e gli scettici, laddove la felicità è una condizione interiore di assenza di turbamento. Negli stoici essa si raggiunge grazie alla virtù e implica un distacco dalle emozioni, le quali non sono contemplate in modo tale da poter evitare dolore. Negli epicurei si raggiunge grazie alla filosofia, la quale permette all’uomo di liberarsi da qualsiasi turbamento, fornendogli un quadrifarmaco che consente di sconfiggere il timore degli dei, della morte, dell’impossibilità di raggiungere il piacere e il dolore. La felicità si raggiunge quando l’uomo non ha alcun turbamento nell’anima e dolore nel corpo. E infine, negli scettici, la felicità consiste nel sospendere il giudizio poiché non c’è nulla che sia vero e buono. Anche Arthur, pur essendosi distino per la sua posizione pessimistica nei confronti del mondo e della vita, molto vicina a quella di Leopardi, che ha riportato nella sua opera principale Il mondo come volontà e rappresentazione, ha scritto un saggio in cui ha illustrato 50 regole per raggiungere la felicità. Schopenhauer ha sviluppato un concetto di felicità fondato sulla prudenza e sull’etica ed ha molto più a che vedere con la pace interiore che non con l’esultanza o la gioia, cosa peraltro in linea con il pensiero del filosofo che paragonava l’esistenza umana a un pendolo che oscilla tra dolore e noia passando per l’intervallo fugace ed effimero del piacere. Ma cosa si può fare per essere felici? Tra le regole vi è l’invito ad evitare l’invidia, poiché si tratta di una forza molto negativa che può impossessarsi del nostro cuore e bloccare la nostra gioia di vivere. Chi è troppo concentrato su ciò che fanno o sentono gli altri trascura il compito di costruire la propria felicità. Oppure, riflettere a fondo su una cosa prima di intraprenderla e, una volta terminata, non ossessionarsi con i risultati, ma staccarsi del tutto dalla questione. Dobbiamo anche imparare a guardare ciò che abbiamo, come se qualcuno avesse intenzione di togliercelo e questo vale per un oggetto, la salute, gli amici, il partner, il marito o i figli, la maggior parte delle volte ne comprendiamo il valore solo dopo averlo persi e infine bisogna impegnarsi o imparare qualcosa è necessario per la felicità degli esseri umani perché avere programmi e progetti è fonte di entusiasmo nella vita. La scelta giusta è quella che rende felici, direbbe il filosofo danese Soren Kierkegaard, precursore dell’esistenzialismo e fautore della filosofia dell’aut aut, vale a dire della filosofia della scelta. L’angoscia è il sentimento che scaturisce dalle possibilità di scegliere, l’angoscia continua a seguirci anche dopo la scelta, ma l’uomo che non sceglie è destinato a essere infelice. Scegliere significa determinare la forma della propria vita e se questo può sembrare spaventoso, certo è che quando si compie la migliore delle scelte non si ha bisogno di interrogarsi, lo si intuisce immediatamente. Per Marcel Proust, autore di un romanzo monumentale come Alla ricerca del tempo perduto, la felicità non esisteL’autore descrive la sua lotta, la lotta di tutti gli uomini, contro l’inesorabile scorrere del tempo che passando distrugge ed annienta persone e cose, relazioni e sentimenti.Quella di Proust è una ricerca della felicità perduta attraverso la rievocazione di momenti passati, per far riaffiorare tutta una dimensione dimenticata dalla coscienza. Se pensiamo a quanto scritto in questi giorni da Franco Arminio sul Corriere della Sera, ove dipinge l’Italia come un paese sempre più depresso, la riflessione sulla diventa non solo attuale ma urgente e necessaria. “l nero dell’Italia di oggi non è il fascismo – dice Arminio – ma la depressione. Forse sono depressi anche in Francia, ma lì ora è una depressione che si agita. Da noi è una cosa inerte, cupa. Tutti parlano di Salvini, ma il problema sono quelli che non escono di casa. Ci sono milioni di italiani in pigiama. C’è gente che finisce la sua giornata prima di cominciarla. Esistono i lavori usuranti, ma esistono anche i riposi usuranti. Abbiamo milioni di pensionati in buona salute, ma a cui nessuno sa cosa chiedere. Milioni di giovani senza lavoro e molto spesso senza utopie. Abbiamo un esercito di mutilati che non hanno partecipato a nessuna battaglia. La depressione degli italiani ovviamente non preoccupa nessuno perché i depressi in genere non danno fastidio. Anzi, uno dei motivi dell’assenza di conflitto sociale è proprio il dilagare della depressione. E ovviamente anche della paura”. E allora mi sembra giusto concludere da dove siamo partiti, cioè dal filmato di Cutts: quasi tutti hanno bisogno di lavorare. Molti lo fanno per ragioni economiche: avere un reddito per vivere è ormai da secoli, nel mondo occidentale, una condizione necessaria. Il lavoro nella società capitalistica è fonte di alienazione per Marx e quindi non porta alla felicità, rendendo necessarie forme di consolazione di massa come la religione. La grande domanda è allora, perché lo facciamo? C’è chi lo fa per garantire ai propri cari un’esistenza dignitosa. Chi perché crede in un progetto e con passione lo persegue. Chi perché altrimenti si annoierebbe. La domanda di fondo che però, ogni tanto, guardandoci allo specchio dobbiamo porci è: “sono felice?”. Le risposta non è semplice, ma forse per essere felici non sono le cose ad essere importanti e i beni materiali non sono altro che un mero surrogato di qualcosa che manca e, per tal motivo, non daranno mai la felicità, intrappolandoci come una trappola per topi.

Cosimo Lamanna