H. Arendt e la Vita activa

Secondo H. Arendt regimi totalitari come quelli del novecento sono possibili solo in una società di massa, caratterizzata da isolamento degli individui e conformismo sociale. Laddove ci sono tali condizioni, è sempre presente il rischio degenerativo dei sistemi politici. Individuata la condizione umana di base del totalitarismo (estraneazione sociale, isolamento politico, espropriazione dei diritti di cittadinanza, condizione di “superfluità” dell’uomo) la filosofa si pone una nuova domanda filosofica: perché un agire sociale e politico di questo genere nei tempi moderni? Partendo da questa domanda nacque Vita activa (1958), l’opera in cui Hannah Arendt presenta la propria teoria politica, l’opera in cui emerge la sua visione politica e la sua filosofia politica. Nel libro vengono individuate le tre forme di attività umana, corrispondenti a tre aspetti della condizione umana:

  1. Animal laborans, caratterizzatodallo sviluppo biologico del corpo tramite il lavoro. È questa la sfera che ci accomuna agli animali e la condizione essenziale è la vita stessa.
  2. Homo faber, è la dimensione dell’operare, una dimensione non naturale dell’esistenza. Attraverso il nostro essere nel mondo diamo vita ad mondo artificiale di cose.
  3. Zoon politikon,è la dimensione dell’azione, la pluralità è la condizione della vita politica e la comunicazione è basata su linguaggio, sul discorso.

Nella gerarchia delle forme dell’attività umana, massima importanza ha l’agire politico possibile solo nella dimensione della pluralità, conditio essenziale e imprescindibile di ogni agire politico

La tesi centrale del saggio consiste nella convinzione che a partire dalla fine della polis, l’agire politico è stato sostituito prima dal fare (homo faber) e poi dal lavorare (animal laborans: lavoro per la pura sopravvivenza)

Ma attraverso quali passaggi è avvenuta tale “degradazione” dell’agire?

Nella polis greco-romana, secondo la Arendt, è praticata la gerarchia delle tre attività, teorizzata da Aristotele. La prassi politica è la dimensione della vita attiva in cui gli uomini comunicano non tramite oggetti, ma attraverso il discorso e le nobili gesta. La polis sviluppa una “seconda vita” in netto contrasto con quella privata.

Qui viene distinta la sfera pre-politica, caratterizzata dalla dimensione della casa e della famiglia. La comunità naturale della casa considerata frutto della costrizione e della necessità (provvedere con il lavoro degli schiavi al sostentamento dei figli). Gli schiavi sono considerati “non uomini” in quanto soggetti alla necessità.

La sfera politica, invece, è la dimensione della pluralità, della libertà, condizione essenziale per la felicità (eudaimonia). Uomini sono propriamente quelli che, liberi dalla sfera della necessità, vivono nella polis. Aristotele ritiene che tra tutte le attività delle comunità umane, solo l’azione (praxis) e il discorso (lexis) appartengono veramente all’agire politico. “Ciò originariamente significava non solo che l’azione più politica, in quanto rimane estranea alla sfera della violenza, si realizza nel discorso, ma che trovare le parole opportune al momento opportuno significa agire. Solo la mera violenza è muta, e per questa ragione soltanto essa non può mai essere grande”. Essere politici significa, quindi, abbandonare la violenza e basarsi solo sulla forza persuasiva del discorso.

“L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo.”

La perfetta armonia delle attività umane si è realizzata una sola volta nella storia, nel caso della polis greca. Qui il primato spettava all’agire, dunque alla politica. Al secondo posto della scala si trovava l’operare, al terzo, infine, il lavoro. Tuttavia, a partire dalla filosofia di Platone, i pensatori greci iniziarono a minare questo stato.

Con la crisi dell’impero romano e l’avvento della civiltà cristiano-medievale decade, ad avviso della filosofa, la civiltà della politica, quindi il primato della vita attiva. Non più vita attiva ma “vita mondana” contrapposta alla “vita eterna”. Con il cristianesimo si assiste ad una esaltazione della “vita contemplativa” sulla “vita attiva” e quindi alla superiorità del “bios theoreticos” sul “bios politicos”. Si arriva alla crisi dei tempi moderni. A partire da Cartesio, la modernità ha portato a compimento la negazione della vita attiva. Fondando nel soggetto ogni certezza, infatti, la filosofia cartesiana ha fatto sì che nell’uomo prevalesse l’interesse per le sole cose prodotte dall’uomo stesso in totale autonomia. In epoca secolarizzata resta un interesse per la vita, ma essa non ha più nulla di sacro. Col tempo il mondo moderno, secolarizzato e de-sacralizzato, porta alla disfatta dell’homo faber e al prevalere dell’animal laborans, il cui agire tende unicamente alla conservazione della vita. Il “produrre gli oggetti” (homo faber) lascia il posto al meschino “darsi da fare” per sopravvivere. Nel mondo moderno l’agire politico, ossia la condizione propriamente umana, è divenuto impossibile.

“La vittoria dell’animal laborans non sarebbe mai stata completa se il processo di secolarizzazione, la perdita della fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse privato la vita individuale della sua immortalità”. Il mondo fu ancora meno stabile, meno permanente e offrì quindi ancor meno affidamento che nell’era cristiana. L’uomo moderno perse la certezza di un mondo a venire, e si ripiegò su se stesso. “Lo stesso pensiero, usato solo in funzione strumentale, divenne solo una funzione cerebrale, col risultato che strumenti elettronici adempiono queste funzioni molto meglio di noi”. La fine della politica ci consegna alla “società del lavoro” e ci trasforma in “impiegati”. “È come se la vita individuale fosse stata sommersa dal processo vitale della specie”. All’individuo, in età moderna, viene richiesto solo “… di abbandonare la sua individualità, la fatica e la pena di vivere sentiti ancora individualmente e di adagiarsi in un attonito, “tranquillizzato” tipo funzionale di comportamento”. È quella passività che può produrre gli Eichmann e la “banalità del male”.