L’Altro e la filosofia

Perché parlare dell’«Altro»?

Il fattore motivante fondamentale senz’altro il riferimento all’ATTUALITA’ del problema.

La GLOBALIZZAZIONE in atto nel mondo ci pone di fronte ad un nuovo universalismo che implica, certamente, livelli di comunicazione e circolazione mai raggiunti in precedenza, ma anche, contemporaneamente, poderose spinte all’OMOLOGAZIONE culturale (molto evidenti, per esempio, nella diffusione dei consumi). Tuttavia, proprio in questa realtà, le DIFFERENZE EMERGONO CON PARTICOLARE FORZA: per le stesse dinamiche demografiche, per la rinnovata attenzione culturale ai diritti dell’alterità, anche per il preoccupante sviluppo di PARTICOLARISMI e di FONDAMENTALISMI.

Tra identità e umanità

Concepire la propria identità sempre più implica far fronte a questa complessità e a queste contraddizioni, mentre ci si presenta il compito ciclopico, ma irrinunciabile, di provare a intrecciare pazientemente nella corda dell’umanità (che risulta tanto più robusta, quante più storie parziali riesce a connettere tra loro) tutte le varie differenze, senza proporsi di ignorarle o di azzerarle (Bodei 1997).

La ricerca dell’essenza dell’uomo

Partiamo dalla CERTEZZA UNIVERSALISTICA che si è venuta strutturando con la stessa cultura occidentale, che pone la ricerca del concetto (appunto, dell’universale), come l’obiettivo e la realizzazione dell’ideale conoscitivo e che fa nella comprensione della essenza dell’uomo il nucleo di ogni ricerca sulla virtù, da Socrate in poi.

I LIMITI DELL’UNIVERSALISMO

Oggi è facile sottolineare che la contraddizione propria di ogni universalismo consiste proprio nel concludere la ricerca circa l’essenza umana su un UOMO IDEALE, formato da un insieme di valori e caratteristiche troppo simili a chi le descrive. Il pregiudizio ETNOCENTRICO nasce dunque con la stessa cultura occidentale, nella quale un’identità molto forte, un senso di appartenenza esclusivo ed orgoglioso, si contrappone storicamente a chi, fin nell’antichità è visto come straniero, diverso, «barbaro», aristotelicamente schiavo per natura

Le certezze del cogito

In età moderna, questa ricerca, volta ad individuare un concetto di natura umana tale da proiettare su tutti gli uomini (tutti coloro che possano dirsi tali) caratteri supposti come universali, non va disgiunta da una sottolineatura della centralità dell’individuo.

Il cogito di Cartesio assume proprio l’assoluta antecedenza del soggetto individuale rispetto ad ogni altra affermazione. L’esperienza della diversità e della variabilità umana lo fa concludere che tutti i costumi, tutte le culture appaiono insufficienti per conoscere la profondità umana. La scoperta di questa è affidata invece a noi stessi, alla certezza del cogito. La ragione umana che ci dà la sicurezza per distinguere il vero dal falso e la razionalità dalle superstizioni culturali: quel bon sens che è la cosa meglio ripartita nel mondo, patrimonio universale di tutti gli uomini.

Su questa traiettoria, è facile ritrovare le affermazioni del GIUSNATURALISMO(nella foto Ugo Grozio) sull’eguaglianza naturale degli uomini, dell’illuminismo sul comune ideale di ragione, fino alle conseguenze rivoluzionarie che, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, giungono ai nostri giorni.

I SOFISTI

La stessa civiltà greca, al culmine delle orgogliose conquiste del suo pensiero, ci offre con i Sofisti il primo esempio di RELATIVISMO CULTURALE, come riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alle diverse civiltà, alle diverse culture umane.

L’uomo misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono e delle cose che non sono in quanto non sono

Il mito del buon selvaggio …

La riflessione sui selvaggi alimenta fino a tutto il ‘700 una discussione sull’uomo, sul suo vivere sociale, sul suo rapporto con la natura. La constatazione dell’esistenza di popoli differenti, le riflessioni innescate dal confronto, l’esperienza della diversità coinvolgerà la riflessione di tutti i grandi filosofi, come dimostrano le figure del virtuoso persiano di Montesquieu, del tollerante cinese di Voltaire o del buon selvaggio diRousseau.

Ma già appena dopo la conquista dell’America, nello scontro tra due grandi tradizioni del pensiero occidentale, quella gerarchica, di origine aristotelica, rappresentata dall’umanista spagnolo Juan Gines de Sepulveda e quella egualitaria, di origine cristiana del domenicano Bartolomé de Las Casas, una terza posizione fu formulata, nell’ambito di un istanza scettico-relativista, da Michel de Montaigne, secondo il quale non è lecito adottare un punto di vista cristiano ed europeo nel giudizio su popoli diversi; insensato definire barbaro ciò che non corrisponde ai nostri costumi.

Ogni pretesa universalistica sembra abbandonata, tutti i giudizi appaiono relativi. Su questa impostazione e sul celebrato atteggiamento di «tolleranza» che ne consegue, si può tuttavia essere parimenti critici che nei confronti di un atteggiamento universalistico. Si può infatti osservare la connessione tra un atteggiamento di tolleranza e uno di sopportazione: tollerare dunque, come tollere (cui etimologicamente connesso), ossia togliere, annullandone la rilevanza, quella differenza che ha creato il problema; divenire cioè in-differenti, se non cinici o nichilisti (se ogni valore è buono in sé, tutto va bene, o nulla va bene). Il relativismo culturale portato alle sue forme estreme si rovescia nell’incomunicabilità.

Nasce quindi l’esigenza di prospettare CULTURA DEL DIALOGO, cercando anche in questa terza istanza di rinvenire in grandi esperienze di pensiero gli stimoli giusti.

DIALOGO TRA LE CULTURE

L’esigenza del dialogo accompagna la ricerca filosofica in età moderna, epoca in cui si riconnette, come si è visto, all’idea di tolleranza, che non necessariamente si identifica con la mera sopportazione dell’altrui punto di vista, potendo ben altrimenti valere come riconoscimento della sua pari legittimità e buona volontà di intenderlo nelle sue ragioni. Tra i numerosi esempi di questa disposizione L’elogio della follia come positiva diversità in Erasmo)

Spinoza e l’Homo homini dei

Soffermiamoci sulla filosofia di Spinoza, oltre che sulla sua peculiare esperienza di «diverso»: rampollo di una famiglia di ebrei fuggiti dall’Inquisizione iberica, ebreo nella calvinista terra di Olanda, fu scomunicato dalla sua stessa Sinagoga. L’amor intellectualis gli fa intuire Dio dovunque e lo porta a capire che esso «abita» in ogni persona; ognuno è parte, nella sua diversità, anche in quella apparentemente più spregevole, di un ordine universale.

Kant, l’umanità come fine

IMPERATIVO CATEGORICO

Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo

In esso Kant individua come una regola fondamentale dell’agire etico  

LA SVOLTA TRA ‘800 e 900’

Certamente queste certezze metafisiche non sono più condivise dalla cultura contemporanea. La riscoperta che qui si compie dell’esperienza del «diverso» (e qui sta l’elemento di rottura con tutta la precedente tradizione di pensiero) si svolge invece proprio a partire da una crisi verticale delle proprie certezze tradizionali: l’io, la coscienza, Dio, la posizione dell’uomo nel mondo.

Crollato il cartesiano presupposto ontologico della autosufficienza della coscienza, l’idea, propria delle filosofie monologiche, che l’«altro» possa essere inteso a partire da un «io», magari come sua proiezione all’esterno, come un altro io, si rovescerà: solo in rapporto ad un tu, la persona si potrà scoprire come un io.

Ma intanto, il segno prevalente nel passaggio tra ‘800 e ‘900 quello della crisi dei tradizionali presupposti identitari, della crisi dell’Occidente, della crisi dei modelli della razionalità classica.

F.W. Nietzsche

In una crisi di valori conclamata a partire da F.W. Nietzsche, in un universo in perenne movimento, le tradizionali categorie di identità e alterità, appaiono inadeguate; sembrano condurre all’inerzia, alla passività, alla ripetizione. L’identità quindi non può più essere interpretata come un dato; essa va ricomposta, ristrutturata, ridisegnata di continuo, giocata «senza rete».

Rimbaud

Centrale in questa crisi delle certezze della cultura occidentale di nuovo l’irruzione di mondi «altri». Nei loro confronti sono sempre più labili i classici «confini»: noi-loro, civili-selvaggi, uomo-natura, soggetto-oggetto, ragione-passione. Si scopre gradualmente che l’altro è specchio dell’io, anzi l’altro sta dentro lo stesso soggetto: L’Io è un altro (Rimbaud).

“Sono nel profondo dell’abisso, e non so più pregare”

La psicoanalisi

In questa prospettiva è determinante «il contributo in questa direzione della psicoanalisi, l’opera del cui fondatore è normalmente oggetto di studio particolare. Con S. Freud, la diversità si manifesta addirittura dentro di noi: è all’interno dello spazio psichico abbiamo uno scontro e una intersezione di meccaniche pulsionali e di piani logici differenti, anche nell’uomo, per così dire, esistono piani non euclidei e spazi dell’Es strutturati secondo assiomi diversi da quelli dell’Io e del Super-io» (Bodei 1997)

La prospettiva antropologica

Per vie analoghe, Francesco Remotti (Noi primitivi) vede l’antropologia come una via esterna alla saggezza. L’antropologia non «studia i primitivi», ma esplora gli «altri»; il suo risultato più nobile è l’integrazione degli altri in un «noi» che inevitabilmente e proprio per questo si modifica e che anzi, attraverso l’antropologia, si dichiara disposto a modificarsi.

E. Levinas

Una sostanziale indifferenza sul piano dell’etica è l’accusa che a Heidegger rivolge E. Levinas, per il quale l’Altro non può essere semplicemente una libertà altra da me, un altro Io, bensì un irriducibilmente altro, come tale vicino a Dio, il totalmente Altro, più di quanto non lo sia io. L’alterità dell’altro, nella forma della opposizione del volto è una opposizione pacifica; la violenza consiste nel considerare lo sguardo per ciò che esso non è.