L’arte come via d’accesso all’infinito

Voglio iniziare questo breve contributo sull’arte intesa come manifestazione e via di accesso all’infinito, partendo da Platone, uno dei più importanti filosofi greci dell’età antica, noto per aver concepito una visione dualistica della realtà, da lui distinta in mondo sensibile e monto intelligibile, noto anche come Iperuranio, laddove il primo è solo un pallido riflesso, una copia del secondo. In questo contesto emerge una visione sostanzialmente negativa dell’arte, considerata imitazione di secondo grado:  l’arte, infatti, non era altro che copia di cose sensibili che, a loro volta, non erano altro che copie o imitazione delle forme intellegibili. In tale ottica il “Mito della Caverna” risulta illuminante: le rappresentazioni artistiche non sono altro che quelle ombre proiettate dagli oggetti sui muri che l’uomo, prima di iniziare il percorso iniziatico verso il vero sapere, la dialettica, crede reali. E ancora, nel “Mito di Theuth”, Platone è ancora più esplicito laddove paragona la scrittura alla pittura apparentemente reali, ma incredibilmente mute.

Le cose sono destinate a mutare con il pensiero di Plotino che, pur rifacendosi al pensiero platonico, offre un’altra interpretazione della realtà sensibile che, proprio in quanto contenente quel signum che rimandando all’eterno, va vista sotto un’ottica positiva. Anche la considerazione delle rappresentazioni artistiche cambia:  “Le arti – scrive Plotino – non si limitano a imitare la realtà visibile, ma si elevano alle ragioni formali dalle quali proviene la natura …. Del resto, anche Fidia scolpì Zeus senza rifarsi ad alcun modello sensibile, ma cogliendolo come egli sarebbe stato se, di sua iniziativa, si fosse rivelato agli occhi umani[1]. Per Plotino, in sostanza, non solo imitando il mondo naturale si coglie l’intellegibile contenuto in esso, ma l’artista è in grado di produrre capolavori volgendo lo sguardo dell’anima direttamente alle forme intellegibili. Inizia così quel percorso che porterà alla rivalutazione dell’arte e alla consacrazione della figura dell’artista.

Il concetto di segno dell’infinito, se non di manifestazione dello stesso, è alla base dell’iconodulia, vale a dire di quella corrente di pensiero filosofico/religioso schieratasi a favore del culto delle immagini sacre al tempo delle lotte iconoclaste scatenate da Leone III Isaurico nell’VIII secolo d.C. Nello scacchiere della disputa telogica/filosofica, rifiutando le eresie e mostrando la via regale della santa dottrina che sale verso il cielo senza deviare a destra o a sinistra, giocò un ruolo determinante Giovanni Damasceno che si impegnò particolarmente nella lotta contro gli iconoclasti. Nei tre lunghi Discorsi contro coloro che rifiutano le immagini, composti tra il 726 e il 730, mostra con chiarezza la profondità teologica la necessità della venerazione delle sante icone e delle reliquie, in quanto esse sono una proclamazione della realtà dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della deificazione della nostra natura nella persona dei santi. L’icona, ovvero l’immagine, è un rimando, una finestra all’infinito ed è lecita proprio in quanto quell’infinito si è fatto carne (Cristo), escludendo da ogni forma di rappresentazione il Padre Eterno, puro spirito.

Il Medioevo ha dedotto gran parte dei suoi problemi estetici dall’antichità classica, ma ha conferito a tali temi un nuovo significato, inserendoli nel sentimento dell’uomo, del mondo e della divinità tipici della visione cristiana: tradizione biblica e Patristica, Scolastica, modo di vedere la natura come un riflesso della trascendenza. Nel medioevo Giovanni Scoto Eurigena (che significa irlandese), fu un filosofo del sec. IX e tradusse le opere dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita (è uno pseudonimo usato da un anonimo teologo e filosofo siro, autore di un corpus di scritti mistici affini al neoplatonismo), nelle quali il mondo visibile è considerato come segno e condizione per la conoscenza delle realtà invisibili di natura spirituale. Tutta l’arte romanica e gotica può essere considerata un continuo rimando all’infinito

Lasciamoci alle spalle le icone orientali o di scuola orientale per arrivare alla seconda metà del ‘400 quando nacque colui che, di lì a poco, sarebbe diventato uno degli artisti più celebri e stimati del Rinascimento italiano: Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore, architetto e addirittura poeta. Un artista geniale, con un temperamento irascibile e inquieto, un carattere incostante e instabile che si riverserà inevitabilmente nelle sue opere volutamente abbozzate o incompiute. Da questa “imperfezione” l’artista fu ideatore e promotore di una vera e propria tecnica: il “non finito” che rappresenta proprio una delle massime espressioni artistiche del neoplatonismo rinascimentale, un’arte che apre le porte dell’infinito, che tira fuori l’idea eterna dalla materia, ma non può concretizzarla del tutto poiché la bellezza assoluta non è di questo mondo.  Michelangelo aggredisce violentemente il blocco di marmo dal quale emergono le idee, i prototipi eterni in esso contenuti, intrappolati per così dire. I corpi, simbolo dei prototipi eterni, lottano fisicamente per liberarsene, si contorcono e si divincolano energicamente, ma il movimento resta in qualche modo contenuto poiché sopraffatto da forze maggiori e incontrollabili che impediscono agli uomini di sprigionare la loro forza, o per meglio dire, la loro volontà di fuoriuscire dal blocco e prendere finalmente vita.

Nel contesto di questo breve riflessione mi appare utile menzionare, infine, la posizione di Marsilio Ficino (Figline Valdarno 1433 – Careggi 1499) per il quale la rivalutazione dell’esperienza sensibile  porta ad una vera e propria riflessione estetica. L’arte non è imitazione del reale, ma espressione visibile del bello, dunque della divinità. Ficino attribuisce all’esperienza artistica la funzione di una teologia visiva. È questo primo incontro con la bellezza che orienta l’uomo al Vero. Siamo spinti ad amare l’arte per un desiderio di bellezza che l’esperienza artistica permette in parte di appagare. L’arte è quindi più di un’esperienza sensibile e rivela all’uomo la sua natura più che corporea. La teoria estetica di Ficino non è dissimile dalla concezione di Schopenhauer secondo la quale l’arte è la più elementare esperienza estatica e di liberazione dalla volontà. Ficino torna così ad attribuire all’arte il significato di Rivelazione e all’artista una funzione sacrale: “Che cos’è mai un’opera d’arte? La mente dell’artista realizzata in una materia a lei esterna. E che cos’è un’opera della natura? La mente della natura realizzata in una materia a lei intimamente congiunta[2]”.

 

 

Cosimo Lamanna

[1] Cfr. Plotino – Enneadi, V, 8 (31) 1

[2] Cfr. M. Ficino, Teologia platonica, IV, I, vol. I, pp. 243 – 44