Pascal, grandezza e miseria dell’uomo

Attraverso lo spazio mi afferra e mi inghiotte come un granello; attraverso il pensiero io afferro l’universo”. Così scrive Blaise Pascal in una delle sue opere più note i Pensieri, opera rimasta incompiuta che nelle intenzioni del filosofo doveva rappresentare una grande apologia del cristianesimo. I Pensieri, per la loro analisi della condizione dell’uomo, rappresentano un’opera fondamentale per lo studio del pensiero del filosofo francese, da molti considerato, insieme al danese Kierkegaard, uno degli anticipatori dell’esistenzialismo. La frase presa in considerazione mette in luce quello che Pascal definiva grandezza e miseria dell’uomo, la cui posizione è intermedia tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo rispetto ai quali, il pensiero è smarrito. Ecco perché lo spazio, l’universo, infinitamente grande rispetto all’essere umano lo afferra e inghiotte come un granello, e l’uomo si sente schiacciato dall’universo, dall’infinito. Pur tuttavia, è proprio dallo sperimentare e dall’avvertire questo senso di impotenza nei confronti dello spazio, nasce quella che Pascal definisce grandezza dell’uomo, cioè la capacità di cogliere l’universo attraverso la forza del pensiero. E’ il pensiero ciò che fa grande l’uomo, lo fa prendere consapevolezza del suo stato esistenziale e nel contempo lo differenzia e lo innalza al di sopra dell’universo, incapace di rendersi conto tanto della sua grandezza quanto della piccolezza dell’uomo, concetto espresso con forza in un altro aforisma pascaliano quello della canna pensante, laddove scrive: “l’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”. L’uomo è un paradosso, secondo Pascal, definito dalla sua aspirazione all’infinito, alla felicità, al tutto e dal suo limite, la sua fragilità, la sua finitezza. Potremmo dire che la filosofia di Pascal è una filosofia dell’et et, e non dell’aut aut, per riprendere il linguaggio kierkegaardiano, l’uomo ondeggia tra il desiderio di conoscere tutto e l’ignoranza, tra il volere tutto e il volere nulla, non è l’essere, ma neppure il nulla, uno status di continua insoddisfazione che Schopenhauer definirà con la metafora del pendolo. A questa convinzione Pascal arrivò dopo essersi dedicato con ottimi risultati alla fisica e alla matematica che, per quanto affascinanti, non potevano rappresentare a suo parere la la sapienza poiché coincidono con un grado di conoscenza ben limitato: sia per limiti strutturali (è prodotto dell’uomo, che è limitato) sia in relazione ai problemi dell’uomo, alle domande esistenziali (di fronte ad esse la scienza sperimentale è del tutto impotente, perchè essa trova nel suo metodo, quello sperimentale, la sua forza ma anche i suoi confini: può lavorare solo su realtà fisiche, tangibili, e non certo sul pensiero, sulla volontà soggettivi, che pure sono anch’essi esperienza, e nel senso più alto). Qui Pascal anticiperà la riflessione kantiana che traccerà i limiti della conoscenza riducendo quest’ultima al mondo fenomenico, lasciando tuttavia aperta la porta a quello noumenico.

Cosimo Lamanna