Socrate e la rivoluzione del pensiero occidentale

socrate.def_.compressNell’Atene del V secolo, mentre si sviluppava il movimento dei Sofisti, vive e opera Socrate, grande filosofo, destinato a segnare in modo decisivo tutto il pensiero occidentale successivo. Nacque ad Atene nel 479 a.C da padre scultore (Sofronisco) e da madre ostetrica o levatrice (Fenarete). Da Atene Socrate non si allontanò mai se non per attendere a certi doveri militari (come oplita). Ogni trattazione del pensiero socratico deve senza dubbio partire da quella che gli studiosi hanno definito la questione socratica; Ma in che cosa consiste? E’ noto che Socrate non abbia lasciato nulla di scritto e che, quindi, ciò che si conosce del suo pensiero, è stato ricavato da fonti secondarie che ci offrono versioni diverse, e spesso discordanti, del filosofo. Le fonti di riferimento sono le opere di Aristofane, Senofonte, Platone e Aristotele. Le commedie di Aristofane (in particolare Le Nuvole) sono considerate poco attendibili dal punto di vista filosofico, in quanto il loro obiettivo è la polemica contro i sofisti e i fisiologi (es. Anassagora), cui Socrate è accomunato, piuttosto che a illustrare la filosofia socratica. Senofonte, invece, parla di Socrate nei Memorabili e non essendo esperto di filosofia, ci offre una testimonianza dell’uomo Socrate, piuttosto che del filosofo. La testimonianza di Senofonte ci presenta un Socrate in grado di discutere con tutti di argomenti di genere vario, quindi una personalità poliedrica. La storiografia attuale considera fondamentali, per cogliere il nucleo del pensiero socratico, i dialoghi platonici, in cui Socrate figura come interlocutore principale. Oggi si può sostenere con una certa sicurezza (leggasi studi della prof.ssa Ada Lamacchia), che almeno i dialoghi giovanili contengono con una certa fedeltà il pensiero socratico, libero dagli ulteriori approfondimenti platonici. L’ultima fonte degna di rilevo è rappresentata da Aristotele: quest’ultimo, tuttavia, si è sostanzialmente richiamato ai dialoghi del suo grande predecessore, sottolineando alcuni aspetti originali. Fin qui la questione delle fonti, ma veniamo al processo, che rappresenta senza dubbio uno dei momenti più profondi della vita di Socrate, un esempio di coerenza e fedeltà alle proprie idee, come si vedrà in seguito. Socrate, più interessato alla ricerca pubblica della verità che alla politica attiva, aveva trovato nelle strade della pòlis l’occasione ottimale per mettere in pratica la sua nuova idea di filosofia. All’interno di questo spazio aperto, ma ai margini della vita pubblica ufficiale, Socrate ritagliò la propria sfera di azione, distinguendosi nettamente dai sofisti, sia per il suo deciso interesse alla ricerca della verità, sia per l’utilizzo dei dialoghi cosiddetti brachiologici (brevi) al contrario dei lunghi discorsi o orazioni tipiche del filosofare sofista. Brachiologia, dal greco brachylogia, composto da brachys (“corto, breve”) e logos (“discorso”). Le fonti ci tramandano un Socrate aduso a fermarsi con chiunque (cittadini ateniesi, stranieri di passaggio, intellettuali, sofisti) percorrere insieme un cammino fisico che si trasformava in una severa indagine di se stessi (conosci te stesso). Nel Protagora di Platone, Socrate contrappone alla sua concisione (necessaria alla fluidità del dialogo e del confronto a due voci) la prolissità del sofista. Questo suo eccellente approccio critico, fino a quel momento sconosciuto, insieme al suo ascendente sui giovani, suscitarono i sospetti del governo democratico. Tre politici, Meleto, Anito e Licone ne interpretarono le preoccupazioni per il vigente ordine politico, religioso e sociale e lo accusarono di ateismo e corruzione dei giovani: «Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità. Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani. Si richiede la pena di morte», questo uno stralcio dell’Atto di accusa. Processato, dopo essersi difeso da solo, Socrate venne condannato a morte. Accettò la morte con serenità e rifiutò la concreta possibilità di fuggire, visto che i suoi discepoli avevano organizzato la fuga, poiché voleva testimoniare il rispetto delle leggi e coerenza verso la giustizia. Chi avrebbe più seguito Socrate se Socrate avesse rinnegato se stesso? Ma veniamo ai contenuti filosofici dell’attività di Socrate: innanzitutto Socrate pone a fondamento della sua ricerca di verità il motto di Chilone, che era scolpito nel tempio di Delfo “Conosci te stesso”. E’ da intendersi che il se stesso di cui si mette alla ricerca è l’anima, cioè la natura spirituale che fonda l’essenza dell’uomo e che ha carattere universale e di conseguenza la conoscenza di sé illumina ogni altra conoscenza (degli altri uomini, della società, della natura fisica). Considerando anche le diverse illustrazioni di Socrate da parte delle summenzionate fonti, è possibile, quindi, che quest’ultimo, così come gli altri filosofi greci sia stato inizialmente attratto dall’indagine della natura ma che in un secondo momento se ne sia distaccato avendo acquisito la convinzione che ha senso alcuna conoscenza che prescinda dalla conoscenza di se stessi. Ma come si fa a conoscere se stessi? La prima condizione richiesta per conoscere se stessi è quella di sapere di non sapere, Socrate infatti dice: «So solo questo, che non so nulla». Quella che può sembrare ad una prima interpretazione una professione di ignoranza, in realtà evidenzia uno stato d’animo di forte umiltà intellettuale, presupposto essenziale se si vuole davvero conoscere mettendosi in ascolto dell’altro: so di non sapere, quindi ascolto quello che hai da dirmi…. Potrebbe essere questo il senso della celebre affermazione socratica. Altro aspetto che merita una considerazione è quello riguardante la scelta di non scrivere nulla, oggi inaccettabile in una società radicata a forme di comunicazioni largamente diffuse e durature, ma forse meno efficaci: «La scrittura – ad avviso di Socrate – ha una qualità mirabile, simile a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se fossero vivi, ma se gli chiedi qualcosa, rimangono maestosamente in silenzio. Nello stesso modo si comportano i lògoi; crederesti che possano parlare, come se pensassero qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di quello che dicono, si manifesta una cosa sola e sempre la stessa» (cfr. Platone, Fedro) Socrate era convinto che soltanto dialogando a voce e di persona gli uomini possono comunicarsi vicendevolmente quella verità che ciascuno custodisce nella sua interiorità spirituale; gli scritti sono muti testimoni di un messaggio, ma non bastano, anzi generano falsa sapienza. E qui, nell’epoca dei social network, dei messaggi sbrigativi e impersonali, della comunicazione di massa, non possiamo che recuperare e fare nostro il messaggio socratico: il dialogo ha una ricchezza e potenzialità inesauribili. Il metodo dialogico di Socrate si articola in due momenti, che potremmo definire la pars destruens (momento distruttivo) e la pars costruens (momento costruttivo di ricerca della verità). Il primo momento è quello dell’ironia, strumento attraverso il quale Socrate, fingendo di non sapere, opera una decostruzione di tutte quelle false sapienze caratterizzate da pregiudizi e scarso senso critico. Una ricerca della verità degna di tal fatta deve poggiare su basi certe, dirà qualche secolo dopo Cartesio nel suo “Discorso sul metodo”, ma Socrate lo aveva già capito….. Non posso costruire la ricerca della verità sulla palude dei miei pregiudizi e delle mia false convinzioni costruite sull’arroganza intellettuale del falso sapiente. Solo dopo questa prima fase che possiamo definire catartica, purificatrice, è possibile procedere alla ricerca della verità attraverso la maieutica l’arte di far emergere dall’intimo dell’interlocutore la verità, termine che Socrate mutua dalla madre ostetrica, paragonando il filosofo alla levatrice: come l’ostetrica aiuta la donna a fare nascere il bimbo che porta in grembo, così il filosofo aiuta il discepolo a tirar fuori la verità che porta in sé. Qui il distacco di Socrate dai sofisti è netto poiché non solo da per certa l’esistenza di una verità universale, ma ritiene che la funzione del filosofo non sia quella di convincere, ma di aiutare nella ricerca. Una vita degna di essere vissuta è quella posta alla ricerca della verità, del bene e della giustizia, pilastri sui quali si fonda quello che viene definito dagli studiosi intellettualismo etico di Socrate, che consiste nell’identificazione di virtù e conoscenza. Solo chi sa cosa sia il bene e lo conosce non può non farlo e chi sbaglia, sbaglia solo per ignoranza. Quest’ultima è la fonte di ogni vizio e di qualsiasi deviazione dalla via della virtù. La conoscenza, invece, consente di scegliere sempre la via dalla quale non possono provenire né dolore né male ed è questo il piacere della virtù. L’uomo che conosce il bene, quindi, ad avviso di Socrate, non può fare il male: concezione a mio parere molto bella e nello stesso tempo molto ottimistica della natura dell’essere umano, sebbene sia supportata da un altro elemento a cui si fa spesso riferimento nei dialoghi platonici, il dàimon, un misterioso influsso divino ispiratore che secondo Socrate parlerebbe alla coscienza dell’uomo, suggerendo cosa non fare e indicandogli la missione da compiere. La morale socratica appare quasi un preludio a quella kantiana espressa nella Critica della Ragion Pratica. La più nota a accezione di daimon, è sicuramente quella che ci è stata tramandata da Platone e Apuleio, che si rifanno entrambi a Socrate. Nicola Abbagnano sostiene che la religione di Socrate “non è altro che la sua filosofia”: Socrate non era ateo, ma anzi affermava di credere in una particolare divinità, figlia degli dei tradizionali, che egli chiamava dàimon. Socrate si diceva tormentato da questa voce interiore che si faceva sentire non tanto per indicargli come pensare e agire, ma piuttosto per dissuaderlo dal compiere una certa azione, una sorta di Super Io se vogliamo parlare in termini freudiani. Socrate stesso dice di esser continuamente spinto da questa entità a discutere, confrontarsi, e ricercare la verità morale: <<ch’ei m’avviene un che divino e demoniaco, come disse nella querela anche Meleto, pigliandosene gioco. Ed è una cotale voce, che, sino da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare: sospingere, non sospinge mai>>(vedi Apologia XIX). Lontano dai significati oggi attribuiti al termine demoniaco, accezione generalmente negativa, questo ‘spirito guida’, secondo il filosofo greco, è in realtà presente in tutti gli uomini, e accompagna ciascuno nel corso della propria vita. Non solo: infatti il daimon è anche il compagno scelto nell’Ade dall’uomo prima di cominciare la sua esistenza terrena e che, dopo la morte, guida l’anima sino al luogo in cui deve essere giudicata. Dunque, esso si configura come uno spirito guida della coscienza, e si identifica con le forze divine del male o del bene e arriva durante il sonno a consigliare ed illuminare. Non mi appare una forzatura affermare che il daimon socratico sia passato attraverso le barriere temporali e culturali fino a permeare nella concezione cristiana dell’Angelo Custode. Contrariamente a coloro che vedono nel daimon una sorta di simbolizzazione della coscienza morale, altri storici della filosofia, come ad esempio Guido Calogero, non condividono questa interpretazione del daimon : «Però si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni. In molte opere Platone ci parla di questo essere semidivino che fa da tramite tra il Dio e l’uomo; il demone aiuta l’uomo sia nel suo percorso terreno che in quello dopo la morte: <<A questo proposito si racconta che quando uno è morto il suo demone che l’ha avuto in custodia durante la vita, ha l’incarico di condurre la sua anima in un luogo prestabilito, dove si raccolgono tutte le altre anime per essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il compito di accompagnarle, esse vanno verso le dimore dell’Ade. Qui, una volta subita la sorte loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito, un’altra guida le conduce nuovamente verso la terra ma questo attraverso un vastissimo arco di tempo>> (Fedone LVII). Platone usa la parola “daimon” a volte come è sinonimo di Dio e talvolta con la sfumatura di un essere quasi umano. Nel Simposio, Diotima dice che Eros è un demone potente e che gli spiriti sono qualcosa tra Dio e l’umano. Al quesito di Socrate: <<Che potere hanno essi, dunque?>>, Diotima risponde: <<Sono gli inviati e gli interpreti che vanno e vengono tra cielo e terra, volando in alto con la nostra venerazione e le nostre preghiere, e discendendo con le risposte e comandamenti divini>>. Poiché si trovano fra le due situazioni essi fondono i due lati insieme e le incorporano in un grande tutto. Essi formano il mezzo delle arti profetiche, dei riti sacerdotali, di sacrifici, iniziazioni e incarnazioni, di divinazíoni e di stregoneria; infatti il divino non si mescola direttamente con l’umano, ed è soltanto attraverso la mediazione del mondo della spirito che l’uomo, sveglio o dormiente, può avere qualche rapporto con gli dei. Vi sono molti spiriti e Eros (Amore) è uno di loro.

Cosimo Lamanna