Dall’universo finito di Aristotele all’universo infinito di Giordano Bruno

L’universo ha da sempre rappresentato motivo di fascino, mistero, fonte di domande e tentativo di risposte per l’uomo. Fin dall’antichità poeti e filosofi si interessarono alla natura dell’universo, alle sue origini, alle sue qualità fornendo le più disparate risposte. Una delle questioni riguardava se l’universo fosse finito o infinito, cioè se avesse dei limiti, fosse delimitato e quindi perfetto, secondo la concezione del mondo greco, oppure fosse illimitato, infinito. Nella definizione del cosmo la posizione di Aristotele si affermò non solo nel mondo antico, ma fino all’età moderna quando piano piano cominciò ad essere demolita unitamente alla visione geocentrica dell’universo da quella che poi è passata alla storia come Rivoluzione Scientifica. L’universo di Aristotele, di Tolomeo, di Tommaso d’Aquino, di Dante Alighieri e di tutti gli aristotelici anche contemporanei di Giordano Bruno, era un universo finito, pieno, privo di spazi vuoti in cui i vari cieli come volte concentriche ruotavano l’una intorno all’altra spinte da un finalismo che mirava alla perfezione. Si parlava di “volta celeste” con la terra al centro, con una progressione verso la perfezione man mano che ci allontanava dalla terra per raggiungere il cielo delle stelle fisse e tutti i cieli si muovevano aspirando alla perfezione del cielo superiore. Aristotele parlava di Primo Motore Immobile che muoveva senza essere mosso, concetto poi interpretato in chiave cristiana dopo essere stato “digerito” da filosofi mussulmani come Averroé. Il viaggio di Dante Alighieri è un viaggio ascensionale verso il Primo Bene che è Dio, il mondo sovralunare era più perfetto del mondo terrestre. L’universo aristotelico tolemaico, in tal senso, si presentava come un universo “qualitativo” dove la catalogazione dei cieli avveniva in termini di maggiore o minore perfezione. Ecco quanto scrive Aristotele nella Metafisica: “È evidente, dunque, da quello che è stato detto, che esiste una sostanza immobile, eterna e separata dalle cose sensibili. E risulta pure che questa sostanza non può avere alcuna grandezza, ma che è senza parti ed indivisibile. (Essa muove, infatti, per un tempo infinito, e nulla di ciò che è finito possiede una potenza infinita; e, poiché ogni grandezza o è infinita o è finita, per la ragione che s’è detta, essa non può avere grandezza finita, ma nemmeno una grandezza infinita, perché non esiste una grandezza infinita). Risulta, inoltre, che essa è impassibile ed inalterabile: infatti tutti gli altri movimenti sono posteriori al movimento locale“. Con Niccolò Copernico (1473 – 1543) si cominciò a diffondere la teoria eliocentrica, già peraltro teorizzata dal pitagorico Aristarco di Samo, ma non fu messo in discussione il carattere finito dell’universo. Questo scrive Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium   “La prima e piú alta di tutte le sfere è la sfera delle stelle fisse, che contiene le altre compreso se stessa e che perciò è immobile, in quanto luogo dell’Universo cui si rapportano il moto e la posizione di tutti gli altri corpi celesti. Alcuni pensano che anch’essa si muova in qualche modo, ma noi, nel corso della dimostrazione del moto della Terra, assegneremo un’altra causa a questa apparenza. Segue quindi Saturno, primo dei pianeti, che compie la sua rivoluzione in trent’anni. Dopo Saturno viene Giove che compie la propria rivoluzione in dodici anni. Poi Marte che compie il suo moto circolare in due anni. Al quarto posto viene la rivoluzione annua [della sfera] in cui è contenuta la Terra con la sfera della Luna, come un epiciclo. Al quinto posto viene Venere che riduce a nove mesi la durata della sua rivoluzione. Al sesto posto infine c’è Mercurio che gira con un periodo di ottanta giorni. Al centro di tutti risiede il Sole. Chi infatti situerebbe in questo stupendo tempio una luce in altro o migliore luogo di questo, da cui può illuminare ogni cosa simultaneamente? Non a caso alcuni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri rettore dell’Universo. Trismegisto lo chiama Dio visibile, l’Elettra di Sofocle “colui che vede tutte le cose”. Cosí dunque il Sole, quasi come seduto sul soglio regale governa la famiglia degli astri che gli girano intorno. […] Noi troviamo dunque in quest’ordine la mirabile armonia dell’Universo e un nesso stabile tra il moto e la grandezza delle sfere, quale in altro modo non si può reperire. […] Perfettissima, in verità è questa divina fabbrica dell’ottimo e supremo Architetto”. Con Galileo, tuttavia, oltre alla teorica eliocentrica, cominciò a diffondersi una visione dell’universo di carattere quantitativo, più che qualitativo, con conseguente e inevitabile abbandono della visione finalistica dell’universo. I corpi celesti, nell’ambito della prospettiva meccanicistica si muovono non perché ci sia un’aspirazione o una volontà di fare, ma perché vi è una “necessità” fisica legata ad una legge esprimibile in termini matematici. Anche il celebre filosofo francese Renè Descartes, noto anche come Cartesio, si trovo a dover risolvere il conflitto tra meccanicismo e finalismo emerso con forza a seguito dell’individuazione tra della res extensa e della res cogitans. Ma ecco cosa scrive Galilei nel 1615 nel Considerazioni circa l’opinione copernicanaa proposito di Copernico: “Di piú, conobbe e scrisse nell’istesso luogo il Copernico, che il pubblicare al mondo questa opinione l’averebbe fatto reputar pazzo dall’infinità de i seguaci della corrente filosofica e piú dall’università de gli uomini vulgari: nulladimeno, forzato da i comandamenti del Cardinal Capuano e dal Vescovo Culmense, egli la pubblicò. Ora, qual pazzia sarebbe stata la sua se egli, reputando tale opinione per falsa in natura, l’avesse publicata per creduta vera da sé, con certezza di averne a essere reputato stolto appresso tutto il mondo? E perché non si sarebbe egli dichiarato d’usurparla solo come astronomo, ma di negarla come filosofo, sfuggendo con questo protesto, con laude del suo giudizio, la nota universale di stoltizia?”. Galileo riuscì, servendosi del cannocchiale da lui perfezionato, a dimostrare le teorie di Copernico, diventando in tal modo una vera e propria minaccia per la Chiesa e l’Autorità, a tal punto da richiedere l’intervento della Santa Inquisizione che costrinse Galileo Galilei all’abiura sottoscritta il 22 giugno del 1633. In questo contesto era apparso con forza il pensiero rivoluzionario di Giordano Bruno, frate domenicano, filosofo, che sposò la teoria eliocentrica di Copernico, collocandola in un contesto più ampio fatto di un universo infinito e di infiniti mondi, senza nessun centro. Nell’opera La cena delle Ceneri Bruno manifesta la sua opinione su Copernico: “egli è stato come l’aurora, che ha preceduto il “sole dell’unica e vera filosofia”. Smitho e Teofilo, protagonisti del dialogo di Bruno, rappresentano rispettivamente il gentiluomo inglese interessato alle dispute filosofiche e il sostenitore della filosofia bruniana. Lasciano poco spazio al dubbio le parole di Teofilo, laddove afferma: “lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch’han caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità”.  E in questo passo Bruno è ancora più diretto: “Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso, o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanto potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio, che di natura non è differente e altro da questo”. Da questo punto di vista Bruno rappresentò un elemento di “destabilizzazione” nel contesto storico culturale del suo tempo, ancora teso in parte a difendere le certezze del passato dalla nuova tendenza a scoprire nuovi orizzonti. In tal senso “ben si comprende”, il naturale destino di Bruno, quasi una sorta di immolazione sull’altare della libertà di pensiero.  Bruno finì sul rogo il 17 febbraio 1600 con la condanna per eresia eseguita in piazza Campo dei Fiori a Roma.  Prima della morte Bruno avrebbe pronunciato queste parole: “avete più paura voi a pronunciare la sentenza che io nell’ascoltarla”.

Cosimo Lamanna