Søren Kierkegaard, il filosofo dell’Aut Aut

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Non si può comprendere il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard senza prendere in considerazione la sua vita. Mai, infatti, come in questo caso, vita e pensiero, vicissitudini personali e tematiche filosofiche sono strettamente intrecciate. Ma quali momenti della vita di Kierkegaard risultano particolarmente importanti per il suo pensiero? Di sicuro il rapporto con Regina Olsen, la sua fidanzata e quello con il padre. Dalle vicende familiari, infatti, Kierkegaard evinse l’idea che la sua vita sarebbe dovuta essere una vita da penitente, una vita “speciale”, motivo per cui non si sarebbe potuto accontentare di un percorso di normale integrazione nella quotidianità media delle persone del suo tempo. Così anche il matrimonio, dopo il fidanzamento con Regina, avrebbe rappresentato un tradimento della sua vocazione eccezionale, e perciò, pur amandola, decise di lasciare la sua fidanzata. L’idea dell’essere un penitente, di dover prendere la religione con estrema serietà, era il frutto della severa religiosità che K. aveva ricevuto da suo padre Michael Pedersen, pastore protestante, che subì una serie di disgrazie che lo convinsero a credere di essere oggetto di una sorta di maledizione. Egli infatti, pur avendo fatto fortuna dal punto di vista economico-sociale, vide morire la moglie e 5 dei suoi 7 figli, e si convinse che tutto questo fosse accaduto a motivo di un’imprecazione lanciata contro Dio in giovane età, a causa della povertà in cui era costretto a vivere. Dio , a seguito di quell’imprecazione, l’avrebbe aiutato a diventare ricco, ma nello stesso tempo gli avrebbe tolto tutto quello che nella sua vita lo rendeva felice, vale a dire gli affetti familiari. Ecco l’humus in cui cresce Kierkegaard, al quale si aggiunge il difficile rapporto con la Chiesa Protestante, nella quale avrebbe potuto avere una facile carriera, resa possibile ai massimi livelli dal conseguimento della licenza in teologia. Tuttavia, una carriera di tal fatta, non era plausibile e conciliabile con la sua idea di religiosità e questo determinò il progressivo deteriorarsi dei rapporti con il vescovo Myster (già amico di suo padre) e poi per la progressiva consapevolezza del tradimento che la “cristianità stabilita”, cioè la Chiesa istituzionale, avrebbe perpetrato ai danni del vero cristianesimo e della sua serietà. La rottura si consumò con il vescovo Martensen, oggetto delle polemiche di Kierkegaard poiché teologo di matrice hegeliana adagiatosi su una vita di onori e godimenti. Il cristianesimo istituzionale, secondo K., non incarna il vero ideale religioso ed è piuttosto schiavo della filosofia hegeliana, mentre il vero cristianesimo è impazienza dell’eternità, serietà tremenda, timore e tremore (peraltro titolo di una sua opera). La filosofia kierkegardiana è una filosofia tutta rivolta all’esistenza di quell’io empirico, concreto, singolo che la filosofia hegeliana aveva trascurato a favore del genere. Il pensiero del filosofo danese, invece, intende dar conto dell’esistenza del soggetto umano concreto (il soggetto empirico, non quello trascendentale). Di questo soggetto empirico va colto il senso, l’inquietudine e il destino, sempre in bilico tra realizzazione e fallimento. Hegel nella sua filosofia e nei suoi scritti aveva trascurato l’io inquieto e concreto, esposto ai casi della vita con la responsabilità di decidere del proprio destino, a favore di un io ideale, che riassumeva in sé le tappe di uno sviluppo inarrestabile e inevitabile. Il limite dell’idealismo, quindi, è l’incapacità di cogliere la realtà della vita concreta, l’esistenza tutt’altro che inevitabile e inarrestabile. Ciò che conta veramente è, invece, il singolo e le scelte che egli si trova a fare nella sua vita. La vita umana di per sé non soddisfa alcun criterio di razionalità e non realizza mai appieno se stessa, ma esige invece scelta e responsabilità. Il percorso del soggetto kierkegaardiano non è mai un percorso lineare, privo di ostacoli, ma una strada tortuosa che l’individuo percorre, vivendo le potenzialità e l’estrema responsabilità della scelta come massima espressione della libertà. L’uomo è libero di scegliere, al contrario dell’individuo cosmico-storico emerso nelle Lezioni di Filosofia della Storia di Hegel: nulla è predeterminato e l’uomo non è uno strumento per la realizzazione dello Spirito Assoluto che governa la storia. L’uomo è libero, è scelta, ma questa libertà di scegliere determina un sentimento di angoscia e inquietudine profonda. L’angoscia è il sentimento che scaturisce dal rapporto dell’uomo con il mondo. L’uomo, infatti, in quanto esistente, è chiamato a scegliere tra diversi stili di vita che gli si prospettano e per questo motivo K. adotta lo strumento degli pseudonimi che gli servono sia per mettersi al riparo da eventuali polemiche o attacchi che potevano scaturire i seguito ai suoi scritti (es. quelli contro la chiesa protestante), ma nello stesso tempo gli consentono di di rendere più concreta e credibile la situazione esistenziale legandola a personaggi “realmente esistenti”, che vivono direttamente la condizione esistenziale illustrata. Quindi veniamo ad uno dei capisaldi della filosofia kierkegaardiana: gli stadi dell’esistenza (stadio estetico, stadio etico, stadio religioso). Si tratta di tre modalità di vivere, di tre scelte possibili per l’individuo. Lo stadio kierkegaardiano non deve essere inteso come un grado da superare per passare allo stadio successivo, come nella fenomenologia hegeliana, non è una strada dritta, priva di ostacoli, ma un tracciato tortuoso, imprevedibile e scosceso. Tra gli stadi non vi è successione cronologica, ma un mutuo rapporto e possibilità di sconfinamento dell’uno nell’altro. In sostanza ogni stadio gode di piena autonomia rispetto agli altri e il passaggio dall’uno all’altro avviene attraverso la decisione. Il rapporto tra gli stadi si caratterizza per l’aut-aut, o l’uno o l’altro, bisogna scegliere, non per l’et-et finalizzato alla sintesi finale. L’eroe che simboleggia lo stadio estetico è il Don Giovanni, personaggio desunto dall’omonima opera di Mozart: don Giovanni è il seduttore che mira a conquistare tutte le donne che gli capitano sotto mano, è il simbolo della vita estetica, ovvero del vivere le sensazioni che il mondo fornisce: l’esperienza estetica è prevalentemente di tipo quantitativo (alla qualità delle donne Don Giovanni preferisce la quantità), consiste, essenzialmente, nel vivere dell’istante, il carpe diem per intenderci L’esteta si pone in contrasto con la società, della quale ne disprezza il conformismo, e cerca l’appagamento nel mondo, senza mai appagarsi realmente, è solo apparentemente libero, ma in realtà non lo è perché incapace di scegliere, a tal punto che è il mondo a scegliere per lui. L’unica scelta che egli fa è di non scegliere, ossia di scegliere che sia il mondo a scegliere per lui. Infatti Don Giovanni, scegliendo tutte le donne, non ne sceglie nessuna: è il mondo che gliele offre; la libertà di cui l’esteta si vanta è allora una mancanza di libertà, la dominazione della realtà di cui si sente capace è solo apparente, e la sua soggettività è del tutto inesistente visto che non compie scelte. Accanto alla seduzione fisica Kierkegaard propone, con la figura di Johannes, il seduttore intellettuale: capace di sedurre attraverso le epistole. La vita dell’esteta è condannata alla noia: l’esteta finisce per avvertire il vuoto della propria esistenza. I testi di riferimento di questo stadio esistenziale sono il Diario di un seduttore e il Don Giovanni. Lo stadio estetico trova precisi collegamenti con rappresentanti romantici quali Goethe, Schiller, Novalis, oppure con autori decadenti come Baudelaire, Verlaine, Flaubert, Poe, Wilde. Di fronte al vuoto interiore l’esteta può scegliere di abbandonare quello stadio, e quindi prendere una decisione che lo porti fuori dal vuoto esistenziale, ma può anche metabolizzare la situazione vivendola esteticamente, un po’ come il protagonista de Il piacere di D’Annunzio: capisce che la vita non ha un senso e, proprio in virtù di questa scoperta, rivendicando una presunta superiorità, decide di viverla. Un’alternativa alla vita estetica è rappresentato dallo stadio etico, dimensione nella quale l’uomo vive calato nei valori della collettività. Per rappresentare questo stadio, Kierkegaard sceglie il consigliere Guglielmo, classico burocrate statale. Se la scelta della vita estetica è, paradossalmente, quella di non scegliere, quella della vita etica consiste invece nello scegliere di scegliere: si è consapevoli di scegliere e di portare fino in fondo tali scelte. L’uomo etico vive nella ripetizione, nella reiterazione quotidiana della scelta, cioè nel desiderare di continuo la scelta fatta a suo tempo: la vita matrimoniale e quella lavorativa ne sono il simbolo. Tuttavia, anche l’atteggiamento etico è destinato ad entrare in crisi e, pur rappresentando un apprezzabile superamento di quello estetico, ha il limite di mancare di valore assoluto. Al di là dell’importanza delle scelte etiche l’uomo, nella prospettiva di K., si rende conto che in questo stadio manca l’aggancio con l’assoluto e da questo scaturisce una crisi che travolge la finitezza dell’uomo etico. L’uomo etico si perde nelle regole di una collettività impersonale che non valorizzano la singolarità e l’individualità, che mancano di un rapporto diretto con l’Assoluto. Questa crisi è simboleggiata dal pentimento, ovvero dal rendersi conto della propria finitudine che rende insignificanti importanti scelte etiche. I testi di riferimento di questo stadio sono: Lettere dell’Assessore Guglielmo ad A., L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, mentre in campo letterario troviamo importanti collegamenti con Thomas Mann (Tonio Kröger, I Buddenbrook), ove viene rappresentato il dissidio dellìuomo che deve scegliere tra la vita artistica e la vita borghese, viene rappresentato altresì il mondo etico, un modo fatto di norme e ripetizioni. Nell’arte questa filosofia si concretizza nel Realismo e nel naturalismo. L’uomo che sottopone se stesso all’introspezione, non può che sperimentare il sentimento della disperazione, derivante proprio dal rapporto dell’uomo con sé stesso. La disperazione, infatti, è quel senso del nulla interiore che si prova nel rendersi conto che la vita estetica è nulla e che anche la vita etica manca della dimensione dell’assoluto. La condizione umana, quindi, resta irrisolta e genera la disperazione, quella ce Kierkegaard definisce “La malattia mortale” nell’opera omonima. Viene pubblicata sotto lo pseudonimo di Anti-Climacus, in contrapposizione al Climacus delle Briciole di filosofia. Scatta a questo punto la possibilità di una nuova dimensione, quella della vita religiosa, che trova in Abramo il suo eroe. Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco e, proprio quando sta per farlo, viene bloccato da un messo divino. In quel momento Abramo sperimenta tutta la solitudine derivante da un rapporto diretto con la Divinità, è solo a dover fare una scelta, decadono tutte le norme etiche e non c’è nessuno ad aiutarlo e consigliarlo. Questo stadio contiene quell’aggancio con l’Assoluto di cui la sfera etica manca. Il Dio di Abramo, inoltre, non è (come già aveva detto Pascal) quello dei filosofi, degli scienziati e dei teologi, ma è il Dio persona con cui si può dialogare abbandonando la civiltà. L’uomo religioso vive nel “momento”, ovvero nella riproposizione dell’istante, ma è un istante dotato di senso assoluto. Itesti di riferimento: Timore e tremore (1843), Il concetto di angoscia (1844), La malattia mortale (1849). La fede per Kierkegaard non ha nulla a che vedere con quella istituzionale, ancella e serva della filosofia hegeliana, la fede che intende è ‘salto nell’assurdo’: presuppone il riconoscimento da parte dell’uomo dell’impotenza delle proprie forze e della contraddizione che gli è propria come essere umano, è scandalo poiché conduce ad un dissidio totale col mondo. Il rapporto di fede è un rapporto di solitudine tra Dio e l’uomo, è rischio: l’uomo non possiede nessuna certezza, nessuna garanzia, se non quella interiore, ed è posto di fronte al bivio (credere o non credere), è tuttavia soluzione del paradosso dell’esistenza poichè è l’unica possibilità di salvezza ma, nello stesso tempo, essa è un dono divino. Cristo è simbolo del paradosso. Importanti collegamenti letterari sono rappresentati da F. Kafka: la solitudine del singolo di fronte al destino (Il processo, La metamorfosi, Il castello) che, tra l’altro fu appassionato lettore di Timore e Tremore. L’uomo moderno è privo di certezze ed esposto all’imprevedibilità del destino, potenza ostile all’uomo, il vivere umano è scisso, enigmatico e sconcertante: ogni evento racconta all’uomo la sua nullità, impotenza ed ignoranza. Nell’arte l’esempio più calzante è rappresentato da Munch, emblematico il suo urlo, ma anche il simbolismo (G. Moreau, gruppo dei Nabis) per la rivalutazione della dimensione dell’io contro l’oggettività del reale.