Arte ed estetica bizantina in Puglia – Le icone

madonna-della-madiaUn’opera d’arte, sia essa pittorica, scultorea, architettonica, ecc., non è qualcosa di astratto che appare improvvisamente nel mondo, ma è il risultato del contesto storico, politico, sociale, culturale e religioso che la circonda. Leggere un’opera d’arte pertanto, significa capire le concezioni mentali che le stanno dietro. Arte ed estetica sono strettamente intrecciate tra loro, nonostante l’estetica, vale a dire “teoria del bello”, come disciplina sia piuttosto tarda. La categoria “estetica” è di per sé settecentesca e nasce dalla volontà degli studiosi del periodo di mettere ordine in un settore molto vasto e spesso “confuso” come quello dell’arte.

In realtà l’idea e il concetto di bello esistevano sin dall’antichità. Nell’antica Grecia, ad esempio, il filosofo Platone parlava di Idea del Bello, come concezione astratta, perfetta, incorruttibile ed eterna.

Introdurre la nozione di può essere utile per comprendere come mai gli artisti o semplicemente gli uomini si esprimessero in un modo piuttosto che in un altro.

La nostra regione, la Puglia, ci mette in stretto contatto con l’arte bizantina; L’estetica bizantina era molto diffusa nell’arte meridionale, soprattutto nelle icone che ne rappresentano, a mio avviso, la produzione più caratteristica. Essa è il prodotto di un atteggiamento generale nei confronti del mondo, un atteggiamento religioso, ispirato ai Vangeli e alla filosofia trascendentistica dell’ellenismo. La prima sostiene che esistono due mondi, uno terreno e uno divino, uno materiale e uno spirituale. Il più importante dei due è quello spirituale. Esso è perfetto. La seconda tesi afferma che il mondo materiale non è interamente malvagio, dal momento che Dio vi discese e vi abitò. Il fine dell’uomo, tuttavia, è quello di trovare la via verso il mondo perfetto. Tale dualismo religioso impregna l’estetica bizantina.

I bizantini si consideravano Greci e di fatto lo erano, per la maggior parte. Volevano, pertanto, conservare la tradizione greca, ma vivendo ai confini orientali dell’Europa, caddero sotto l’influenza asiatica e dall’Oriente essi appresero a godere delle forme astratte, dello splendore, delle pietre preziose, delle dorature e dei colori brillanti. L’arte bizantina, quindi, riesce a unire la filosofia trascendentistica greca (concetto platonico del Mondo delle idee) con l’influenza asiatica (grandiosità – utilizzo degli sfondi dorati). La funzione dell’arte bizantina era concepita su scala grandiosa, nello stile della corte imperiale. Lo splendore materiale serviva a esprimere le idee mistiche e a condurre verso Dio. I servizi religiosi erano per i bizantini quello che le rappresentazioni teatrali erano state per gli ateniesi. L’arte bizantina era mistica e simbolica.

L’estetica bizantina trova la sua espressione più pura nella pittura. Quest’ultima non viene usata solo per servire Dio, ma anche per rappresentarlo insieme ai suoi santi. Essa assume così un’unica forma, l’icona (eikon) o immagine, ritratto di Cristo e dei santi. Il resto del mondo visibile viene trascurato a vantaggio della forma umana. Questa preferenza trovava la sua giustificazione teologica nel fatto che Dio stesso aveva assunto forma umana nell’incarnazione.

Ma cosa è l’icona?

Giovanni Damasceno è perentorio: <<L’icona è una rappresentazione che rende fedelmente l’originale, pur avendo una differenza: infatti l’icona vivente, naturale e totalmente fedele del Dio invisibile e unicamente il Figlio che porta in se stesso il Padre nella sua completezza, essendo totalmente identico a lui>>. Ma quale è la differenza? <<Ogni icona del Cristo […] rappresenta e comprende l’ipostasi del Signore, e questa ipostasi è proprio l’elemento che, attraverso di essa, irradia verso l’esterno. E grazie all’irradiamento e all’attrazione, diventa un mezzo che collega al modello, testimoniando e annunciando la presenza del prototipo>>. Di qui si giustifica la mobilitazione delle forze per combattere le mire iconoclastiche, che tendevano a svuotare dal di dentro la realtà dell’incarnazione. L’icona perciò non è un quadro qualsiasi o un oggetto d’arte da proporre al godimento degli occhi, ma una cosa-sacra, un sacramentale, una via alla salvezza. Questo l’insegnamento di fondo, che non era certamente estraneo alle popolazioni dell’Italia meridionale, discepole di una spiritualità che avevano assorbito con il latte materno. E non è solo questione di gusto: se l’oggetto specifico della pittura bizantina è la rappresentazione della forma umana, il desiderio dell’artista non è quello di rappresentare il corpo, ma l’anima. Questo fine viene raggiunto attraverso la smaterializzazione del corpo umano, ridotto nella forma più astratta. L’astrattismo è la prima cosa da notare a proposito delle icone bizantine. In secondo luogo l’artista non rappresenta un aspetto particolare della forma umana, ma la sua essenza. Nelle intenzioni dei Bizantini, le icone dovevano rappresentare i prototipi delle forme temporali. La stessa pittura era solo un mezzo, non un fine: il suo oggetto reale era invisibile.

Le icone non erano soltanto da ammirare, si doveva pregare davanti ad esse in una lunga e concentrata contemplazione mistica, pensate per un attimo all’icona della Madonna della Madia, alla quale noi monopolitani siamo molto legati.

Il pittore, pertanto, rappresenta i santi nell’immobilità e una concentrazione altrettanto immobile viene richiesta allo spettatore, che deve tenere gli occhi fissi in quelli del santo. Il viso, in particolare gli occhi divengono il punto focale del dipinto. Essa spicca su di un fondo, spesso d’oro, che la discosta dallo spazio materiale e la innalza al di sopra della realtà. Si tratta di un’estetica che lascia poco spazio alla creatività dell’artista, un artista ignoto, conducendo ad una iconografia fissa.

Il dibattito teologico

E’ difficile dire in che misura l’arte bizantina subì l’influenza della cultura ebraica e di quella mussulmana. A riguardo si deve dire che se nella cultura ebraica, già nell’Antico Testamento è esplicita la condanna delle immagini (In Principio era il Verbo), nel Corano non troviamo una tale esplicita condanna, sebbene di fatto i califfi osteggiarono il culto delle immagini. Certamente sulla condanna delle immagini pesa il concetto platonico di immagine, che come tale è soltanto apparenza e non verità. L’iconoclastia – o iconoclasmo – (dal greco εἰκόν – eikón, “immagine” e κλάω – kláo, “spezzo”) è un termine che indica un movimento di carattere religioso sviluppatosi intorno alla prima metà del secolo VIII. Alla base di questo movimento stava la convinzione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in idolatria. Questa convinzione provocò non solo un imponente confronto dottrinario ma anche la distruzione materiale di un gran numero di icone. Fin dalla fine del secolo IV, l’Impero bizantino era stato afflitto da numerose eresie, che rischiavano di minare la sua stessa unità. Le più importanti tra queste furono il nestorianesimo, il monofisismo e il paulicianesimo. Quest’ultima era sorta in Armenia e in Siria nel secolo VII. Sensibili alle accuse di idolatria mosse al cristianesimo da parte dei fedeli dell’Islam, i pauliciani mossero guerra al culto delle immagini. Al movimento pauliciano finì per aderire l’imperatore bizantino Leone III Isaurico, il quale decretò la distruzione delle immagini ovunque se ne trovassero. Le icone potevano essere raffigurazioni sacre di qualsiasi genere: dalle miniature dei codici alle pitture murali. C’è una grande varietà di icone mariane, diverse per forme e per denominazioni; ma in questo insieme possiamo riconoscere tre modelli fondamentali, che la tradizione attribuisce appunto a Luca.

Il primo è la Madonna Odighítria (=colei che addita la via). È quello in cui Maria regge col braccio sinistro il Figlio, sollevando la mano destra per indicarlo: la “via” è appunto Cristo.

Il secondo modello fondamentale è la Glykofilussa, o Madonna della tenerezza. Qui i volti di Maria e di Gesù sono accostati in espressione di dolce intimità, mentre nell’Odighítria restano sempre staccati. Le immagini di questo tipo hanno spesso nomi particolari, presi dalle località dove furono più onorate (Madonna di Vladimir, di Pskov e così via): oppure inventati dalla pietà popolare.

Terzo modello di icona è quello della Vergine orante: anch’esso viene fatto risalire dalla tradizione all’evangelista Luca, ed è quello in cui la Madonna appare senza il Figlio, in atteggiamento orante con le braccia sollevate; oppure nella supplica di interceditrice, come viene raffigurata in una composizione particolare detta in greco déesis: qui, al centro della scena campeggia Cristo, mentre eri suoi lati sono raffigurati la ‘Vergine Maria e Giovanni Battista nell’atto di supplicarlo.

Nella maggior parte delle icone la Vergine è rappresentata a mezzo busto, e accanto ai tipi tradizionali più diffusi ve ne sono altri con raffigurazioni e nomi un po’ diversi.  L’icona non è dovuta ad una intuizione personale dell’artista, non rappresenta una sua impressione: appartiene strettamente a una tradizione precisa. Ancor prima di essere dipinta, è un’opera profondamente meditata, frutto dell’elaborazione paziente di generazioni di pittori. L’icona non è un quadro; nell’icona è rappresentato non già ciò che il pittore ha davanti agli occhi, bensì un certo prototipo al quale egli deve attenersi. La venerazione delle icone deriva dalla venerazione per il prototipo. La reverenza ad esse dovuta, e la loro creazione, furono strettamente regolate dal VII Concilio ecumenico.  Le icone mariane, che sempre colpiscono e incantano per l’armonia dei colori, la sicurezza delle linee, e principalmente per il carattere profondamente ispirato delle immagini. Il corpo di Maria appare sempre ricoperto da ampie vesti; sul capo, il tipico velo orientale, che copre i capelli e talvolta scende ampio fino alle ginocchia. Dominante su tutto, il volto, con la caratteristica e suggestiva sproporzione: labbra piccole e occhi grandi, espressivi, riflesso di profondità spirituale e di raccolta e intensa contemplazione. L’incarnato del viso di Maria varia secondo le epoche e le scuole, ma è sempre piuttosto scuro. Le mani lunghe e affilate non hanno gesti drammatici, o solenni, ma costantemente semplici e calmi. La prospettiva inversa – abituale per i pittori di icone – accentua l’impressione di «qualcuno che viene verso di noi»; siamo di fronte a una bellezza misteriosa, più che umana. E tale è precisamente il fine di queste raffigurazioni, come dice l’antica formula attribuita a Dionigi l’Areopagita: «Le icone sono rappresentazioni di spettacoli misteriosi e soprannaturali>>.

I colori delle icone mariane

Come in tutte le raffigurazioni sacre, i colori assumono un’importanza fondamentale, così come le caratteristiche ricorrenti fanno tutte capo ad una ben precisa tradizione. Il blu, ad esempio, rappresenta il colore della trascendenza, mistero della vita divina. Il rosso è indubbiamente il colore più vivo presente nelle icone: è simbolo dell’umano e del sangue versato dai martiri. Il verde è spesso usato come simbolo della natura, della fertilità e dell’abbondanza. Il marrone, invece, simboleggia ciò che è terrestre e nella sua natura più umile e povero. Il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore del divino che rappresenta la luce che è vicina. Le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presentano sempre la dicitura “IC XC” (forma greca abbreviata di Gesù Cristo) e anche “O ΩN” (“colui che è”; il simbolo è generalmente inserito nell’aureola). La vergine Maria invece, presenta la dicitura “MP ΘY”(forma greca abbreviata di Madre di Dio). Entrambe queste scritte sono riscontrabili in icone come quella della Madonna dell’Elemosina, custodita nella omonima basilica di Biancavilla, in provincia di Catania; vicino al nome possono comparire altre diciture, come ad esempio “Onnipotente”, “Datore di Vita”, “Vergine Madre”. Le iscrizioni non hanno solo un valore didascalico, ma certificano l’identità del raffigurato e ne invocano la presenza all’interno dell’icona. Le espressioni dei personaggi hanno sovente un grande valore simbolico: Gesù Cristo viene rappresentato mentre benedice ed indica con la mano il numero tre (la Trinità). La Vergine Maria viene dipinta con la mano che indica il Figlio che porta in braccio. Tanto chi avversava le immagini quanto chi era ad esse favorevole sosteneva che Dio non poteva essere rappresentato nella sua natura eterna.

Favorevoli e contrari alle icone

I teologi favorevoli alla venerazione delle immagini, però, la giustificavano in base all’incarnazione di Cristo che, a parer loro, rendeva possibile la sua raffigurazione. Distinguevano, per dar corpo alle proprie opinioni, tra immagine e archetipo: nell’icona non si venerava l’oggetto stesso ma Dio. Ciò era stato evidenziato ben prima della controversia iconoclasta da Leonzio di Neapoli (morto attorno al 650). Anche Giovanni Damasceno distingueva con cura tra l’onore relativo di venerazione mostrato ai simboli materiali e l’adorazione dovuta solo a Dio. Naturalmente, per la religiosità popolare, questa distinzione sfumava e l’immagine stessa finiva per diventare oggetto taumaturgico. Anzi, tale era la tendenza a considerare le icone veri e propri oggetti animati che le si usava per assistere battezzandi o cresimandi in qualità di padrino. Altri raschiavano la vernice dei quadri e mescolavano quanto ottenuto nel vino della messa, ricercando in tal modo una comunione con il santo raffigurato. Era, insomma, corrente l’opinione secondo cui l’icona fosse effettivamente un luogo nel quale poteva agire il santo o, comunque, l’entità sacra che vi era rappresentata. Per abbattere queste correnti eretiche, l’imperatore Leone III di Bisanzio, originario di Germanicea, promanò un editto imperiale (726) che decretava l’eliminazione di queste raffigurazioni. Ciò condusse ad una generalizzata rivolta degli iconolatri dell’Impero (detti iconoduli). La riforma religiosa di Leone III va iscritta in una più ampia opera generale interna all’Impero, ai fini della quale i pauliciani rappresentavano un pericolo. Fu anche per togliere loro il pretesto di una ribellione che l’imperatore decise di assecondare le loro richieste. Non mancavano, insomma, ragioni politiche e di opportunità nell’operato di Leone: l’iconoclastia serviva anche a combattere lo strapotere dei monaci che, da un lato, facevano ampio mercato delle icone, rafforzando in tal modo la loro condizione economica e la loro influenza politica all’interno dell’Impero, e, dall’altro, suggestionavano le folle, sottraendo influenza alla corte imperiale. Per mezzo dell’iconoclastia, fu quindi possibile a Leone III di impossessarsi delle immense ricchezze dei monaci. Giunse, in ogni caso, anche la sanzione ecclesiastica: un concilio convocato nel 754 da Costantino V, tenutosi nel palazzo di Hieria (posto sul lato asiatico del Bosforo), gli diede ragione. Il papa Gregorio III condannò, dal canto suo, i decreti di Leone. La penisola italica vide anzi i suoi abitanti insorgere a difesa dell’ortodossia occidentale contro i funzionari bizantini. Fu proprio in questa occasione che il ducato di Roma assunse sempre maggiore indipendenza da Bisanzio: in questo vuoto di potere, i metropoliti di Roma avocarono a sé vere e proprie funzioni di governo.

L’estetica bizantina e la Puglia

Non furono soltanto le conquiste e gli editti imperiali a introdurre in Puglia la lingua greca e la liturgia bizantina. Furono, via via, gli avvenimenti. Uno scambio di popoli, di prodotti commerciali e di idee si verifica in fasi successive dal V all’VIII secolo fra l’Impero e l’antica Calabria, oggi Terra d’Otranto, tanto vicina all’Epuro e alla Grecia. Le migrazioni monastiche del VI (ma avviate giа prima) e dell’VIII secolo, sotto Giustiniano (527-565) e Leone III Isaurico (717-741), non costituiscono l’unica motivazione della presenza e influenza della Chiesa orientale, anche se favorirono i rapporti fra greci e latini e crearono buona disposizione reciproca. A favorire presso di noi la diffusione del cristianesimo sono stati anche i mercanti che, insieme alle merci, hanno portato ed esportato ben altro in e dall’Oriente; e ciò è avvenuto senza eventi spettacolari e grosse manifestazioni, ma grazie alle normali relazioni di ogni giorno. Il monachesimo ha certamente fatto il resto. Sulle nostre terre i monaci greci, amici di Dio e degli uomini, hanno trasfuso e alimentato il tesoro della loro spiritualità, di una visione del mondo costantemente tesa all’ai di la, pur con una organizzazione di vita che risentiva dello stato di provvisorietà tipico di questa terra. La loro presenza non aveva pero difficoltà a farsi accettare da popolazioni grecizzate e animate dalla stessa pietà. Di qui traggono origine un certo gusto estetico, la particolare liturgia, la lingua e tutto quanto a queste realtà e connesso. La grotta diventa un lembo di cielo, nel quale il monaco si abitua a vivere in compagnia invisibile di questi santi che, ritratti sulle icone o affrescati sulle pareti, occupano gli spazi della sua povera abitazione: la sua vita e un anticipo di quell’eternità beata che sarà la definitiva dimora alla fine del pellegrinaggio terreno; o meglio, gli affreschi della cella o le icone ivi presenti stanno a significare che egli vive già in cielo. Tutto l’ambiente circostante e impregnato di tale spiritualità ed e pieno di una presenza ultraterrena. Sembra riproporsi in questa terra quella Tebaide famosa che ha visto una moltitudine di monaci, ma anche di tanti semplici cristiani, battere le nostre strade alla ricerca dell’Assoluto. Nasceva così e si perpetuava quella nuova spiritualità che sospingeva le nostre popolazioni a guardare a Oriente

Cosimo Lamanna