Freud e Il disagio della civiltà

Il disagio della civiltà è un testo che appartiene alla piena maturità del pensiero freudiano. Il libro, pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1930, è un libro tragico, nato in circostanze storiche e personali eccezionali, all’indomani di laceranti conflitti nel movimento psicoanalitico, all’ombra dell’ascesa al potere di Hitler e del drammatico disfacimento della Repubblica di Weimar, nel contesto di una crisi economica internazionale e di dinamiche collettive inquietanti

Nel testo il padre della psicoanalisi ci mostra il precario equilibrio delle relazioni tra individuo e civiltà, continuamente messo a rischio dal conflitto inconscio interno all’individuo, dal sentimento di colpa che tale conflitto produce e dall’aggressività distruttiva che lo accompagna.

Freud fa cosi emergere il paradosso di una civiltà che, formatasi per assicurare agli uomini sicurezza e protezione, li ha invece messi in condizione di distruggersi; di una cultura che, lungi dallo strapparli alle feroci necessità della natura, ha consentito loro di infliggersi sofferenze enormi. Per Freud la civiltà (Kultur significa ad un tempo civiltà, cultura, società) non è fonte di disagio, ma è esattamente il contrario: è grazie alla civiltà che l’uomo ha conquistato un po’ di sicurezza e di benessere. Questo non significa però che all’interno della civiltà non possano esservi dei disagi, e di essi il libro vuole parlare.

In tale contesto non si può non fare riferimento alle teorie contrattualistiche e alle concezioni dello Stato di Locke e Hobbes, soprattutto. Quest’ultimo, infatti, concependo lo Stato di natura all’insegna dell’homo homini lupus, e vedendo nell’uomo un essere aggressivo, egoista e violento, leggeva nello Stato l’unico vero argine e fonte di sicurezza per l’uomo stesso. Di qui il patto sociale e la scelta dello Stato Assoluto.

Ma torniamo a Freud

Dopo la crisi del ’29 l’economia tedesca, come tutte le economie degli stati occidentali, era in seria difficoltà e il governo aveva attuato scelte rigorose quanto impopolari (aumento delle tasse, tagli ai salari ecc.). La depressione aveva fatto crescere il consenso al movimento nazionalista, permettendo così l’ascesa al potere di Hitler, il quale proclamava che i tedeschi dovessero scegliere il loro destino, superando la “debole” Repubblica di Weimer.

Hitler, inoltre, odiava gli ebrei, a suo avviso detentori di un potere occulto, che controllava l’alta finanza, la cultura i giornali, le professioni liberali. In questo contesto sociale Freud, ebreo, sentì il bisogno di andare oltre le consuete riflessioni psicoanalitiche sull’individuo, per cercare di comprendere meglio le dinamiche sottostanti alle società umane.

La civiltà, secondo Freud, nasce per garantire sicurezza, ordine e pulizia a chi ne fa parte, ma gli imperativi che essa impone al singolo sono spesso in contrasto con la soddisfazione dei bisogni individuali. Il disagio del vivere nella civiltà è dunque determinato dal contrasto perenne tra felicità individuale e moralità pubblica.

Nel libro viene riproposta la teoria delle pulsioni di vita e di morte, già introdotta nel libro Al di là del principio del piacere (1920). Freud fa ancora una volta ricorso al mondo dell’antica Grecia, dalla quale prende in prestito Eros (dio dell’Amore) che spinge alla soddisfazione del piacere, e Thanatos (dio della Morte) che spinge verso l’auto-distruzione, verso l’annichilamento degli altri e di sé stessi.

La civiltà, per intrinseche necessità di ordine, porta a soffocare gli impulsi naturali dell’essere umano, attraverso la sublimazione (incanalandoli su condotte che portano a risultati socialmente accettabili, come ad esempio la famiglia), e dunque baratta la felicità del poter tutto compiere o tutto avere con una certa misura di sicurezza.

Se questo disagio nella civiltà si aggiunge ai conflitti intrapsichici già presenti in ciascun individuo (fra Es, Io e Super-Io), si capisce, secondo Freud, come sia facile arrivare alla nevrosi. Se il fine della Kultur è quello di abbattere le pulsioni distruttive, visto che esse non corrispondono ai canoni della convivenza civile, va però detto che queste pulsioni non scompaiono del tutto, per quanto le si voglia negare, e richiedono degli sfoghi.

L’aggressività degli uomini fra loro, l’omicidio, lo sterminio del prossimo e la guerra non sono dunque soltanto incidenti che si verificano per conflitti nati da opposti interessi nella ricerca del possesso di beni, ma devono essere interpretati come lo scoppio di qualcosa di primitivo, che tenuto a freno dalle esigenze di una vita in comune, esplode in modo trionfale in determinate situazioni particolari. Quando le tensioni sociali diventano troppo forti, troppo laceranti (magari per effetto di una situazione economica disastrosa, che porta inevitabilmente al disastro politico), la benevolenza reciproca si trasforma e diventa razzismo e xenofobia, conducendo al possibile esito finale della guerra.

In tal senso non possiamo non fare riferimento alla Prima Guerra Mondiale, che aveva lasciato un segno indelebile nella società e non poteva non rappresentare un importante elemento di riflessione per gli intellettuali dell’epoca, tra i quali appunto Freud.

Eros e Thanatos, afferma Freud, sono in lotta continua e l’evoluzione civile è un costante impegno volta a impedire alla seconda di mandare in rovina la società, che nasce dalla tendenza aggregativa della prima

L’uomo delle origini stava meglio di noi, poteva sfogare i suoi istinti distruttori e non soffriva di nevrosi, ma rischiava di cadere vittima dell’aggressività altrui.

  • La civiltà protegge dai mali provenienti
    • dalla natura esterna, dal proprio corpo, dagli altri
  • La civiltà produce un disagio, perché
    • chiede un sacrificio pulsionale
      • prestazioni sociali e lavorative
      • comandi e divieti (super-io collettivo)
  • La sofferenza e l’aggressività sono componenti strutturali della vita “Principio del piacere” contro “principio della realtà”
  • La civiltà impone costrizioni
  • Una civiltà non repressiva è impossibile.
  • La civiltà non deve permettere repressioni inutili ed eccessive, fonti di angoscia e sofferenze.
  • La speranza di Freud: portare il livello di restrizioni al più basso livello possibile, altrimenti scatta la nevrosi.

Questa riflessione si arricchisce ulteriormente se si prende in considerazione anche lo scambio epistolare tra Einsten e Freud del 1932

Caro signor Freud – scrive Einsten – La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?

E Freud

Caro signor Einstein,

Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra.

E concludendo

Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.

La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.

Suo Sigm. Freud

In sintesi le posizioni condivise tra Einstein e Freud nel carteggio sono almeno tre:

1.La prima è che le guerre traggono origine da una naturale pulsione alla violenza dell’uomo. Una pulsione distruttiva e universale che, sostiene Freud, è tipica della natura umana accanto alla pulsione erotica, la quale invece induce all’unione e all’amore. Entrambi sono convinti che questa pulsione alla violenza possa essere mitigata e governata, ma non del tutto sconfitta, dall’esercizio della ragione.

2. La seconda posizione condivisa è che violenza e diritto non sono agli antipodi. Anzi, il diritto è l’evoluzione della violenza. Il diritto, sostiene Freud, è la “potenza di una comunità“. Esso ha la capacità di mitigare la violenza individuale pur comportando delle contraddizioni. Tuttavia non ha la capacità di bandirla per sempre dalla società.

3. La terza è una posizione politica. Entrambi sono convinti che la guerra, intesa come conflitto armato tra gli stati, possa essere eliminata solo nel quadro del diritto internazionale. Ed entrambi prefigurano una sorta di governo mondiale cui i singoli stati cedono una parte sostanziale della loro sovranità. Nessuno dei due si fa tante illusioni: la strada verso la pace come condizioni strutturale della condizione umana è ancora lunga.

Il 1º settembre 1939 la Germania nazista invade la Polonia: è l’inizio della seconda guerra Mondiale. Freud morirà il 23 settembre dello stesso anno.