Filosofia araba: confronto tra al-Kindī e al-Fārābī

Al KindiAl-Kindī (Abū Yūsuf Ya‘qūb ibn Isāq al-Kindī o Alkindi; morto tra l’866 e l’870 dell’era cristiana) lavorò per tradurre e talvolta ritradurre ed elaborare i testi antichi. Ad al-Kindī, cui è fra l’altro attribuita la revisione della stessa traduzione della pseudo-Teologia di Aristotele realizzata nel suo circolo (il prologo dell’opera lo indica come colui che la “migliorò”, “corresse” o “editò”), si deve anche la prima grande elaborazione di carattere filosofico e scientifico dell’Islam arabo medievale. La produzione di al-Kindī è l’attuazione di un vero e proprio programma di assimilazione delle scienze elaborate dagli Antichi; un programma in cui, accanto all’aristotelismo e al neoplatonismo, sono riconosciute le speculazioni del mondo orientale (persiano, indiano e dei Sabei di Harrān) nella convinzione dell’unità e della progressione del sapere. Il pensiero di al-Kindī appare come un primo tentativo di leggere la filosofia neoplatonica alla luce o in funzione del monoteismo (islamico). L’interesse filosofico di al-Kindī, che pure finisce per interrogarsi scientificamente sui diversi aspetti della natura, è incentrato sui temi teologici. La filosofia prima, per esempio, pur dipendendo strettamente da Aristotele, è chiaramente influenzata, oltre che da Proclo e Giovanni Filopono, dalla riflessione teologica islamica (e soprattutto dalla sua interpretazione mu‘tazilita): il Dio uno vero o reale (haqq) di al-Kindī è sottratto alla predicazione degli attributi ed è, in tal senso, un Dio assolutamente trascendente che è Causa prima del mondo in quanto crea con un atto di libera volontà. Il tentativo da parte di al-Kindī di armonizzare teologia e filosofia, riconoscibile anche nel lessico, passa però per una fede ferma nella scientificità dell’argomentare. Il metodo speculativo di al-Kindī si nutre della tradizione scientifica e più precisamente geometrica (Euclide): come per Proclo, per al-Kindī la conoscenza matematica è un medio e uno strumento per giungere a quella filosofica. Nella quarta e ultima parte della versione (non completa) de La filosofia prima, il Principio, l’Uno della tradizione neoplatonica è identificato con il Dio assolutamente unico della religione islamica che ha nel tawhīd – la professione dell’unità di Dio – il suo dogma intrascendibile. Per al-Kindi filosofia e religione convergono nell’indicare in Dio il principio primo e unico da cui, per «emanazione», deriva ogni altra realtà: Dio crea il mondo dal nulla, come vuole il Corano, facendo essere ciò che non è e conservando nell’essere tutto ciò che ha creato. Per questo al-Kindi critica la teoria aristotelica dell’eternità del mondo, sostenendo, con argomenti che riprende dal cristiano Giovanni Filopono che non può esistere alcun corpo infinito nel tempo: il corpo dell’universo è finito, sia nello spazio che nel tempo, e come ha cominciato a essere così finirà. A Dio, in quanto causa semplice, antecedente e trascendente rispetto a tutte le cose determinate, non si può attribuire alcun predicato. A sostegno della verità del Corano, dunque, parlando di Dio come causa prima di tutte le cose, al-Kindi incrocia la teoria aristotelica del motore immobile (che muove senza muoversi) con quella neoplatonica dell’Uno come principio primo trascendente, di cui tutto

ciò che è partecipa, senza però intaccarne la semplicità e perfezione. La Filosofia prima di al-Kindi è, così, insieme alla Teologia di Aristotele e al Libro delle cause di cui egli stesso potrebbe essere l’autore, all’origine di quella fusione tra neoplatonismo e aristotelismo che contraddistingue la filosofia islamica. Al-Kindi diventa noto in Occidente soprattutto per aver interpretato il passo del libro III del trattato Sull’anima di Aristotele intorno all’intelletto attivo e alla sua separazione dall’intelletto passivo. Si tratta di una delle più dibattute questioni filosofiche del Medioevo, sia tra i filosofi arabi sia tra i teologi e i filosofi cristiani . Per comprendere di cosa si tratti bisogna tornare brevemente ad Aristotele. Secondo Aristotele nell’anima dell’uomo bisogna distinguere due intelletti: quello «passivo», dotato della capacità di ricevere tutte le forme intelligibili, e quello «produttivo», dotato della capacità di astrarre le forme intelligibili dalle immagini sensibili, facendo passare l’intelletto passivo all’atto. Il primo muore insieme al corpo; il secondo, definito da Aristotele come «separabile, impassibile e non mescolato» (cioè, separabile dal corpo, sempre uguale a se stesso e incorporeo), è «immortale ed eterno»: data la sua funzione costante e immutabile, l’intelletto produttivo sembra concepito come un intelletto unico per tutto il genere umano, che agisce sugli uomini finché essi vivono, garantendo l’universalità della conoscenza.

Il primo grande commentatore antico di Aristotele, Alessandro di Afrodisia, vissuto a cavallo tra il II e il III secolo d.C., chiama l’intelletto produttivo «attivo» e sostiene che sia del tutto esterno ed estraneo all’uomo, coincidendo con il primo motore immobile di cui parla il libro XII della Metafisica. Grazie all’azione dell’intelletto divino, l’intelletto passivo (che Alessandro chiama «potenziale» o «materiale», in quanto «tutto ciò che è atto a ricevere qualcosa è materia di quella cosa»), interno all’anima umana e come tale mortale, partecipa della conoscenza delle «forme intelligibili» immateriali. Apprendendo a separare le forme dalla materia, diventa «intelletto come abito» o «intelletto acquisito»; a un livello superiore, quando «l’abito è attivo», esso «diventa l’intelletto in atto», cioè capace di pensare se stesso come identico a ciò che è pensato: le pure forme intelligibili prive di qualunque contatto con la materia. Qui l’intelletto umano raggiunge una sorta di incorporeità che lo rende simile all’intelletto agente immortale, cioè a Dio: una condizione transitoria, però, destinata a finire con la morte. Al-Kindi è vicino all’interpretazione di Alessandro di Afrodisia (che probabilmente riprende, anche se non si sa per quale via l’abbia conosciuta). Egli legge il processo attraverso il quale si conoscono gli universali come l’esito di un’assimilazione

dell’uomo, dotato del solo intelletto potenziale, a Dio: un’ascesa resa possibile dall’azione dell’intelletto attivo, identificato con l’azione illuminatrice di Dio. Al-Kindi produce in questo modo uno schema interpretativo destinato ad avere larga fortuna sia nella successiva tradizione islamica sia nel dibattito cristiano della seconda metà del Duecento.

Il testo inizia con questa proposizione: «ogni causa prima esercita sul suo effetto una influenza maggiore della causa universale seconda». Ricavata da Proclo, con essa si afferma il primato della «causa prima», l’Uno, sulle «cause seconde», anche se essa è la più lontana dagli effetti che produce: in questo senso «il principio primo è causa delle cause», che governa tutte le cose senza, però, avere con esse alcun rapporto di commistione. Le «cause seconde», create dall’Uno e deputate

ad agire direttamente sulla realtà, sono l’«Intelletto» e l’«Anima». Il principio primo, semplice, perfetto, immutabile, precede, dunque, ogni cosa ed è fuori del tempo, mentre l’Intelletto, che è creato dall’Uno, e l’Anima agiscono dietro suo impulso nell’eternità, a livelli decrescenti di perfezione: la causa prima è al di sopra dell’eternità, in quanto l’eternità è un suo effetto. E l’Intelligenza si equipara, ovvero si parifica con l’eternità, perché è coestesa con l’eternità e non subisce né alterazione né distruzione. L’anima, poi, è congiunta con l’eternità inferiormente, perché più dell’intelligenza è suscettibile di ricevere impronte; ed è al di sopra del tempo, in quanto del tempo stesso è la causa (Libro delle cause, prop. 2). L’Uno è assolutamente inaccessibile alla conoscenza umana, nel senso che di esso non si può predicare nulla direttamente, come insegna la teologia negativa di matrice neoplatonica:

la causa prima è superiore ad ogni descrizione e non difettano le lingue nel descriverla se non per il fatto che la descrizione riguarda proprio lei e lei è al di sopra di ogni causa mentre viene descritta soltanto attraverso le cause seconde che sono illuminate dalla luce della causa prima. […] La causa prima è al di sopra delle cose intelligibili e al di sopra delle cose corruttibili, per cui non la toccano né i sensi, né la meditazione, né il ragionamento, né l’intelligenza. E di lei propriamente non si può parlare se non attraverso la causa seconda che è l’Intelletto e non si può chiamare con il nome del suo primo causato, se non in un modo più eminente ed elevato, giacché ciò che è vero del causato è vero anche della causa, ma in un modo più sublime, più elevato e più nobile, come dimostriamo (

Libro delle cause , prop. 5).

Inaccessibile a qualunque forma di conoscenza umana (sensibile, interiore, discorsiva, intuitiva), il principio primo è solo oggetto di un discorso indiretto, in quanto di esso si parla come causa dell’Intelletto, tenendo conto che è superiore per eminenza e perfezione ai suoi effetti.

Il tema dell’identificazione tra la Causa prima della tradizione aristotelico-neoplatonica e il Dio uno dell’Islam è riconoscibile anche nella riflessione di Abū Nar al-Fārābī (morto nel 950 d.C.; in latino Alfarabius o Avennasar), a capo della scuola aristotelica di Baghdad, centro filosofico con cui entrarono in contatto, fra l’altro, diversi cristiani. Se la ricerca di al-Kindī è metafisica e scientifica a un tempo, l’indagine di al-Fārābī è invece metafisica e politica. Nel complesso, il suo pensiero appare infatti dominato dall’esigenza di saldare l’una all’altra fisica, metafisica e teoria civile, nell’intento di reperire un fondamento che sia tanto della sfera mondana, quanto di quella celeste. La dottrina neoplatonica secondo la quale è la necessaria derivazione dal Principio uno a produrre la molteplicità degli enti, fino a quelli sublunari, si accompagna così a una riflessione che, sulle tracce della Repubblica e delle Leggi di Platone (e, mediatamente, della Politica di Aristotele), è possibile considerare una prima espressione di filosofia politica del pensiero arabo.
Oltre a esposizioni e commenti degli scritti aristotelici, l’opera di al-Fārābī comprende diversi testi dedicati all’analisi dei pensieri platonico e aristotelico e al loro fondamentale accordo.
Gli strumenti della lettura filosofica di al-Fārābī sono quelli della logica aristotelica (egli è anche un originale commentatore di Aristotele. A lui si devono, in particolare, la costruzione di una metafisica che sovrappone aristotelismo e neoplatonismo e un’interpretazione originale della questione dell’intelletto attivo. Al-Farabi critica chi considera la metafisica come la scienza che si occupa esclusivamente di Dio, dell’intelletto e dell’anima, cioè dei principi divini. Seguendo Aristotele, al-Farabi la considera, invece, come la «scienza universale», che studia ciò che è comune a tutti gli enti; solo in questo senso di essa fa parte anche la «scienza divina», che studia Dio come «principio dell’essere in generale», cioè di ogni ente.

Dio è «il Primo Essere», «causa prima dell’esistenza di tutti gli altri esseri». Causa efficiente, non causata, di ogni cosa, Dio è eterno, autosufficiente, perfetto, unico, sempre in atto, incorporeo e privo di forma (perché solo ciò che ha materia ha anche forma), indefinibile: la sua essenza consiste nel pensare se stesso, senza altro fine o scopo da realizzare. Egli pensa che questo sia il pensiero di Platone e di Aristotele, concordi nel sostenere la stessa idea di Dio. Per questo, convinto di poter mostrare l’accordo tra i due filosofi greci sulla base di una attenta lettura dei testi, difende Aristotele dalle critiche di Giovanni Filopono, che gli attribuiva una dottrina dell’eternità del mondo difforme da quella di Platone e inaccettabile. Secondo il filosofo arabo, come Platone, anche Aristotele ha sostenuto la creazione simultanea del tempo e del mondo da parte di Dio: se ha detto che il mondo è eterno, è perché la sua creazione da parte di Dio è fuori della dimensione del tempo. Nulla ostacola, secondo al-Farabi, la tesi che il primo motore immobile di Aristotele abbia creato il mondo dal nulla, esattamente come avrebbe fatto il Demiurgo di Platone. Per spiegare come ciascuna cosa venga all’essere, derivando da Dio, al-Farabi ricorre alla teoria neoplatonica dell’«emanazione», che egli considera comune a Platone e ad Aristotele. Scrive il filosofo: il Primo [Essere] è quello da cui proviene l’esistenza. E poiché il Primo possiede un’esistenza che Gli è propria, è necessario che per mezzo suo siano fatti esistere tutti gli altri esseri esistenti – la cui esistenza non derivi dall’uomo e dalla sua libera scelta – secondo l’esistenza che è loro caratteristica e che è ora percepita dai sensi, ora intelletta con la dimostrazione. Tutto ciò la cui esistenza proviene [da Dio] è fatto esistere grazie a un’emanazione che [si comunica] dal suo essere all’essere di un’altra cosa, così che l’essere di ciò che è diverso da Lui emani dal suo essere (Le idee degli abitanti della città virtuosa, cap. VII).

Al-Farabi costruisce uno schema completo del processo gerarchico di derivazione che avrà ampia influenza sui filosofi successivi, in particolare su Avicenna: in questo schema, la matrice neoplatonica si incrocia con l’analisi aristotelica delle intelligenze divine, ciascuna delle quali è intesa come un motore immobile. Dio, il primo dei motori immobili, intelletto puro, pensando se stesso produce la prima intelligenza, cioè la prima creatura incorporea. Questa, volgendosi al motore immobile e pensandolo, produce una seconda intelligenza, mentre pensando se stessa, con un atto di autoriconoscimento, produce un cielo, e il processo continua fino alla decima intelligenza. La prima intelligenza dopo Dio coincide con il motore del cielo delle stelle fisse (la prima sfera celeste), le successive muovono i cieli dei sette pianeti; infine, il cielo della Luna è mosso dalla decima e ultima intelligenza, identificata con l’intelletto attivo di cui Aristotele parla nel libro III del trattato Sull’anima. Con la sfera della Luna, scrive al-Farabi, «termina la serie dei corpi celesti la cui natura è di muoversi di moto circolare»: al di sotto esiste la sfera sublunare, che è imperfetta, composta di una materia che muta e si trasforma. Sulla base di queste premesse ontologiche e cosmologiche, al-Farabi produce un’originale teoria dell’intelletto umano, sviluppando quella di al-Kindi (che a sua volta, come abbiamo visto, è vicina a quella di Alessandro di Afrodisia): dal momento che l’uomo possiede solo l’intelletto potenziale o materiale, perché possa conoscere le forme intelligibili è necessario l’intervento dell’intelletto attivo, la decima intelligenza cosmica, unico per tutti gli uomini ed esterno a essi. Dunque, ciò che l’intelletto umano contiene come potenzialità – per esempio l’idea di uomo – diventa attuale solo per intervento di una illuminazione superiore dell’intelletto attivo: in questo modo l’uomo può giungere all’intelletto «acquisito», cioè a una conoscenza reale degli universali, le forme intelligibili, le essenze delle cose sensibili. Quando l’intelletto acquisito si eleva fino a congiungersi con l’intelletto attivo, pur senza identificarsi con esso, allora l’uomo raggiunge la felicità. Superiore a questo livello è la «visione dell’angelo», corrispondente alla conoscenza del profeta, che, grazie alla facoltà immaginativa, comprende in maniera pura e intuitiva il senso superiore dell’ordine divino e può conoscere gli eventi futuri. Questa è la conoscenza che Maometto ha ricevuto da Dio come rivelazione e spiega la capacità dei profeti di interpretare la parola divina, comprendendone il vero senso. Con ciò lo sciita al-Farabi legittima il ruolo incontestabile di guida degli individui investiti dalla luce dell’intelletto attivo, istituendo un salto di qualità tra la loro forma di conoscenza e quella sensibile-razionale cui è possibile accedere dal basso.

La teoria dell’intelletto a confronto

al-Kindi

La gnoseologia. Complessa e articolata è la dottrina della conoscenza. Prendendo spunto dall’aristotelica distinzione tra intelletto in potenza e intelletto in atto (De anima III, 4-5), al-Kindi offre una “quadripartizione dell’intelletto” che sarà ripresa e variamente elaborata dai filosofi islamici successivi. 1. L’intelletto agente è sempre in atto, separato e unico per tutti gli uomini. Esso è la fonte ultima della conoscenza umana che, comunque, trova nella percezione del sensibile e nel processo astrattivo il principale punto di partenza. 2. L’intelletto in potenza è la possibilità di conoscere data a ciascun uomo. 3. L’intelletto in atto è quello che nell’anima passa dalla potenzialità all’attualità grazie alla unione (senza identificazione) con l’intelletto agente sempre in atto. 4. L’intelletto secondo rappresenta l’insieme delle conoscenze acquisite da un uomo in passato, e ormai sempre disponibili per essere utilizzate. Nell’atto intellettivo si realizza una perfetta identità tra intelletto e intelligibile. Sede dell’intelletto, e anche della sensazione, è l’anima che ha un’origine divina: essa proviene da Dio come la luce dal sole. L’anima è, inoltre, luogo degli intelligibili in potenza. In tal modo il principio della conoscenza che, secondo la quadripartizione vista, sembrava collocarsi soprattutto al di fuori dell’uomo (nell’intelletto agente), viene riposto anche all’interno dell’anima umana. Ciò rende possibile un’altra modalità di conoscenza indicata dal filosofo: quella fondata sulla immaginazione. Facoltà attiva soprattutto nei momenti in cui l’anima è indipendente dai sensi (ad esempio durante il sonno), con essa gli uomini conseguono conoscenze più veritiere rispetto a quelle legate al sensibile, conoscenze di fenomeni occulti e rari o di eventi futuri. Questo tipo di esperienza è subordinata allo stato di purificazione e perfezione dell’anima. Va detto, comunque, che ogni tipo di conoscenza non ha mai, per al-Kindi, solo un valore gnoseologico, ma produce sempre una trasformazione nell’anima, riavvicinandola all’ordine divino da cui proviene.

al-Farabi

La gnoseologia. Via che conduce alla felicità, la conoscenza veritiera è accessibile all’uomo attraverso l’unione con l’Intelletto Agente. Tale congiunzione, senza fusione né identificazione, può avvenire in due modi: intuitivamente nel caso dei profeti, razionalmente per i filosofi. Facoltà della conoscenza intuitiva è l’immaginazione che rende possibile la conoscenza ispirata dall’Intelletto Agente sia in stato di veglia che di sonno. E’ questa la conoscenza data dalle visioni e dai sogni. La conoscenza filosofica, o discorsiva, avviene, invece, attraverso i quattro gradi dell’intelletto, individuati in termini analoghi da al-Kindi, e che al-Farabi riconduce alla classificazione aristotelica del III libro del De anima. 1. L’intelletto in potenza è pura possibilità di ricevere le forme astratte dalla materia. 2. L’intelletto in atto è l’attualizzazione del precedente, il cogliere di fatto le pure forme delle cose materiali. 3. L’intelletto acquisito rappresenta l’insieme delle forme acquisite precedentemente, e dunque utilizzabili dall’intelletto in maniera ormai completamente autonoma dalla realtà sensibile. 4. Infine l’Intelletto Agente, sempre in atto, luogo eterno degli intelligibili, esterno all’uomo, di natura divina. Questa ripartizione è una parte della più ampia suddivisione secondo cui al-Farabi distingue: 1. L’intelletto inteso come “prassi dell’intendere”. 2. L’intelletto normativo dei teologi. 3. L’intelletto che conosce i principi primi su cui si fondano tutte le dimostrazioni. 4. L’intelletto etico, che distingue il bene dal male. 5. L’Intelletto Primo, ovvero Dio.