Kant: nella sfera morale l’uomo è veramente libero

La notte stellata di Van Gogh

Dopo aver stabilito, nella Critica della Ragion pura, i limiti della conoscenza umana, Kant si rende conto che la ragione umana non è solamente ragione teoretica, vale a dire capace di conoscere, ma è anche ragione pratica, cioè capace di determinare la volontà e l’azione; Ed è su quest’ultimo aspetto che è incentrata la Critica della Ragion Pratica, attraverso la quale Kant intende dimostrare che vi è una ragione pratica capace di determinare da sola la volontà. Quella sfera noumenica inaccessibile alla conoscenza umana, sarà alla base dell’agire morale ove la ragione sarà in grado di muovere da sola la volontà dell’uomo senza subire influenze empiriche. Alla luce di ciò sarà possibile individuare delle regole dell’agire valide per tutti, cioè universali. Ma partiamo dall’inizio: Kant distingue i principi pratici in due grandi gruppi, le massime e gli imperativi. Le massime sono principi pratici che valgono solo per i singoli soggetti che se lo propongono, e come tali sono soggettive.  Gli imperativi, invece, sono principi pratici oggettivi, vale a dire che valgono per tutti. Gli imperativi, a loro volta, si dividono in ipotetici e categorici. L’imperativo ipotetico si ha quando si determina la volontà solo a condizione che essa voglia raggiungere determinati obiettivi e come tali valgono oggettivamente solo per coloro che si pongono quel fine. Quando invece la ragione determina la volontà non in vista di un fine, ma semplicemente come volontà, si ha un imperativo categorico, vale a dire una legge morale così come la intendeva Kant. La legge morale non dipende dal contenuto, Kant chiama legge materiale quella che è subordinata al contenuto. Ma se ad una legge si sottrae il suo contenuto, di questa legge non resta altro che la forma, vale a dire “devi perché devi” e come tale valida per tutti, universale e oggettiva. Non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa. Per Kant la legge morale è formale poiché non dipende dalle cose che vogliamo, ma dal motivo per cui le vogliamo. <<Dovere – scrive Kant – nome grande e sublime che non contieni nulla che lusinghi il piacere, ma esigi sottomissione; né per muovere la volontà minacci nulla che susciti nell’animo ripugnanza o spavento, ma presenti unicamente una legge che trova da sé stessa accesso all’animo …>>. L’imperativo categorico kantiano non poteva che essere formulato in questo modo: <<agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere al tempo stesso come principio di una legislazione universale>>.  Nella Fondazione della Metafisica dei costumi, tuttavia, leggiamo altre due formulazioni dell’imperativo categorico: la prima dice <<agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo e mai come semplice mezzo>> e la seconda <<agisci in modo tale che la volontà con la sua massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a sé medesima>>. Basta la pura forma della legge a determinare la volontà secondo Kant, non è necessario il contenuto e, stando così le cose, l’uomo è veramente libero poiché non è condizionato empiricamente nel mondo morale, mentre lo era in quello teoretico: la conoscenza umana, infatti, è condizionata dal fenomeno. Facciamo un esempio per chiarire meglio: ipotizziamo che un amico ti costringa a mentire minacciandoti e tu, per paura, ceda e dica il falso, ma dopo ne avresti rimorso. Questo significa che tu capisci benissimo che dovevi dire il vero, anche se non lo hai fatto, e proprio questo dovevi e quindi potevi ti fa capire che sei libero di autodeterminarti. La legge morale va considerata come una sorta di bussola che ci dice ciò che bene e ciò che è male, ma non sempre noi seguiamo questa bussola. Quando una morale si fonda sui contenuti compromettono l’autonomia della volontà; Tale tipo di morale comporta l’eteronomia della morale. Ma se la legge morale non dipende dai contenuti, si può essere realmente felici obbedendo alla legge morale? E qui ci troviamo di fronte alla dialettica tra virtù e felicità. La virtù, intesa come obbedienza al dovere morale, costituisce secondo Kant l’unico vero merito per guadagnare la felicità. La Critica della ragion pratica si conclude con la celebre affermazione di Kant: <<due cose riempiono l’animo di ammirazione e reverenza sempre crescente il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me>>, riferendosi evidentemente al meccanicismo del mondo naturale colto dalla ragione teoretica e alla libertà dell’ordine morale, colto dalla ragion pratica.