La Filosofia e l’esistenza, l’infinito e il finito.

Il rapporto dell’uomo con l’infinito, dell’io con l’infinito, ha attraversato in maniera trasversale tutta la storia della filosofia occidentale, sin dalle sue origini. Quello dell’infinito, oltre ad aver avuto un indubbio fascino sull’uomo, a tal punto da stimolare da sempre l’arte, la filosofia e la letteratura, è un concetto “piuttosto bizzarro”, come ha detto il prof.  Giuseppe Liuzzi durante il convegno del 7 giugno a Monopoli; Bizzarro perché, in definitiva, non dice nulla di quello che indica, non è un concetto descrittivo, ma definisce per opposizione: infinito, infatti, è tutto ciò che non è finito, non ha limiti. Il pensiero umano di fronte alla necessità di definire l’infinito, non può che far riferimento a ciò che è capace di definire, vale a dire il finito. Già Anassimandro, uno dei filosofi della scuola di Mileto, nel VI secolo a. C., definì il principio, l’arché, come apeiron, cioè privo di limiti, indefinito, infinito. Per Anassimandro il principio non può che essere l’infinito, l’indeterminato, l’ingenerato senza inizio né fine, fuori dal tempo; L’infinito abbraccia, regge, governa e ordina tutte le cose e per questo può essere considerato come Divino. Essendo infinito e indeterminato non coincide con nessuno degli elementi: Anassimandro, in aperto disaccordo con Talete, ritiene che l’arché, in quanto origine di tutte le cose, non possa essere una delle cose stesse, un elemento particolare, limitato e finito. Quella di Anassimandro, nell’ambito della filosofia dei naturalisti, è sicuramente una posizione molto coraggiosa in un periodo e in un contesto storico, come quello greco in cui viveva, dove il finito era sinonimo di perfezione e l’infinito di imperfezione: per gli antichi greci, infatti, qualsiasi cosa per essere perfetta doveva essere definita. L’arte greca esprimeva il bello e la perfezione in quanto armonica e proporzionata e Pitagora, fondatore della scuola di Crotone, dirà senza esitazioni che i numeri pari sono imperfetti e quelli dispari perfetti poiché, se li si rappresenta graficamente i primi si lasciano attraversare all’infinito da una retta, mentre i secondi la delimitano. Dall’infinito nasce il finito, quindi, per Anassimandro e questo in un certo senso potrebbe fornirci una spiegazione del continuo anelito all’infinito da parte dell’uomo, quasi fosse un desiderio di ritorno alle origini, un eterno ritorno per dirla alla Nietzsche. Una posizione particolarmente significativa riguardo al rapporto tra finito e infinito è quella assunta da Plotino al quale si deve una vera e propria rivalutazione del finito inteso come una vera e propria manifestazione dell’infinito. Infatti, dalla lettura delle Enneadi di Plotino, si evince un vero e proprio percorso che va dal basso verso l’alto, che accompagni il discepolo dalla condizione in cui si trova, immerso nel mondo sensibile e nel corpo e distratto dai flussi e riflussi dei suoi processi materiali determinati dai desideri e dalle passioni, alla consapevolezza della sua superiorità rispetto alla natura sensibile dalla quale egli si distacca grazie alla propria anima, che gli consente di elevarsi all’ambito intellegibile, attraverso l’esercizio dell’attività intellettuale, e fino all’Intelletto e alla conoscenza delle idee, oltre il quale, però, solo uno slancio individuale ed extra-razionale può condurre infine all’esperienza dell’unione con l’Uno, ecco cosa scrive: “La nostra tesi è che le cose sensibili sono belle perché partecipano di un’idea. Infatti, tutto ciò che è destinato a ricevere una forma e un’idea, ma non l’ha ancora, è privo di qualsiasi bellezza ed è estraneo alla ragione divina, perché non partecipa né della sua razionalità né della sua forma: è il brutto in assoluto. Ma brutto è persino tutto ciò che è sé dominato dalla forma e dalla ragione, ma non perfettamente: e questo accade perché la materia non può essere plasmata in modo perfetto secondo un’idea, ricevendo così la forma. Dunque l’idea si avvicina alla materia e pone ordine tra le parti multiple, di cui una cosa è fatta, combinandole insieme. L’idea le riconduce a un tutto ordinato, e crea l’unità accordandole loro, perché essa stessa è una, e l’essere che prende da lei la forma deve dunque essere uno, almeno nei limiti in cui può esserlo una cosa composta da molte parti. La bellezza prende così dimora in questo essere, così ricondotto a unità, ed essa si dà sia a tutte le sue singole parti sia all’insieme. Quando poi la bellezza prende dimora in un essere che è già uno ed omogeneo, allora essa splende interamente: è come se la potenza della natura, procedendo come fa l’uomo attraverso l’arte, donasse la bellezza, nel primo caso, a una casa tutta intera con tutte le sue parti, nel secondo caso a una sola pietra. Così la bellezza del corpo deriva dalla partecipazione alla razionalità che proviene da Dio. III. C’è nell’anima una facoltà che corrisponde alla razionale bellezza di origine divina, e dunque sa riconoscerla …[1].

Anche il dottore della Chiesa Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) ebbe a confrontarsi con la tematica dell’Infinito, inteso nel suo caso come Dio. L’esistenza di Dio, vale a dire l’Eterno, l’infinito, non ha secondo il dottor Angelico, l’evidenza razionale immediata del principio di non contraddizione o del principio che il tutto è maggiore di ogni sua parte. Non ha nemmeno l’evidenza sensibile delle cose del mondo dell’esperienza, ma la si può, però, dimostrare con la ragione, riflettendo sui dati dell’esperienza. La filosofia, in tale ottica, può e deve offrire il primo e fondamentale servizio alla fede, servendosi dell’esperienza e della ragione per arrivare a Dio. E qui Tommaso propone le prove razionali dell’esistenza di Dio:

1 – La via ex motu dall’evidenza sensibile del movimento dei corpi risale alla necessità di un primo motore. Se, infatti, ciò che si muove ha un motore, questo, se si muove a sua volta, rinvia ad altro motore; il rinvio può essere molto lungo, ma non può andare all’infinito: si deve, pertanto, concludere che il rinvio porta ad una causa ultima di movimento, ad un primo motore.

2 – La via ex causa, partendo dai rapporti di causa ed effetto che abbiamo sotto gli occhi, arriva, per non andare di causa in causa all’infinito, all’esistenza di una causa prima non causata da altra causa.

3 – La via ex contingentia parte dalla contingenza del mondo e delle sue cose: esse si generano e si corrompono, possono essere e non essere, sono contingenti, esistono ma potrebbero non esistere; se esistono lo devono ad altro che a sua volta, se fosse anch’esso contingente, rinvierebbe ad altro; l’impossibilità di procedere all’infinito postula il necessario, cioè un ente che esista necessariamente di per sé e che possa così essere causa del contingente.

4 – La via ex gradu: constatato il diverso grado di perfezione delle cose, si risale alla perfezione assoluta, di cui tutte le cose partecipano in varia misura.

5 – La via ex fine: tutte le cose, anche quelle prive d’intelligenza, tendono ad un fine e pertanto ci deve essere chi le ordina in tal modo, cioè Dio.

Nella disamina del rapporto tra finito e infinito, tra uomo e infinito, è molto interessante la posizione di Niccolò Cusano  (1401-1464), che si approccia alla tematica attraverso la teoria della dotta ignoranza. L’uomo secondo Cusano, in quanto essere finito, è consapevole di non poter mai conoscere perfettamente l’infinito che, per sua natura gli sfugge; pur tuttavia l’atteggiamento da assumere è quello di un continuo voler approssimarsi gradualmente alla conoscenza dell’infinito e per far comprendere questo si serve dell’immagine del cerchio e del poligono inscritto all’interno del cerchio: più si aumentano i lati del poligono, più questo si avvicina al cerchio senza mai tuttavia coincidervi del tutto. Se la nostra conoscenza è pertanto rappresentata dal poligono, è evidente che noi possiamo avvicinarci alla conoscenza dell’infinito, senza tuttavia conoscerlo nella sua completezza.

La tematica dell’infinito trova spazio anche nella filosofia critica di Immanuel Kant; nella Critica della Ragion Pura, infatti, dopo aver stabilito i limiti della ragione umana, si occupa di quello che è il mondo noumenico, vale a dire la realtà in sé che sfugge alla nostra conoscenza, e lo fa attraverso una delle pagine più belle dell’opera: «Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro, esaminandone con cura ogni parte: ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili». E’ così che Kant descrive la realtà fenomenica (ciò che appare), l’unica conoscibile dall’intelletto umano, quella che lui stesso definisce «la terra della verità (nome allettatore), circondata da un vasto oceano tempestoso …». Pur sapendo di non poter avere alcuna conoscenza dell’infinito, emerge con forza l’esigenza tutta umana di andare oltre i propri limiti, avventurarsi in quel mare tempestoso fatto solo di conoscenze illusorie un po’ come l’errabondo Ulisse, che diventa in tal senso simbolo per eccellenza dell’umano. Leopardi scriverà l’Infinito, uno dei capolavori della letteratura mondiale, in cui apparirà evidente e forte la volontà di andare oltre la siepe, di andare oltre il finito per sperimentare l’esperienza dell’infinito.

Con Hegel (1770 -1831), uno dei massimi pensatori che la storia del pensiero occidentale abbia prodotto, il finito non solo diventa manifestazione concreta e razionale dell’infinito, ma diventa movimento dialettico. Hegel afferma che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al dì fuori di sé, coincide con l’Assoluto e con l’infinito, mentre i vari enti del mondo, essendo manifestazione di esso, coincidono col finito: non a caso la sua opera più importante si intitola, appunto, Fenomenologia dello Spirito. Per Hegel  il finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito. L’hegelismo si configura come una forma di monismo panteistico, cioè come una teoria che vede nel mondo (il finito) la manifestazione o la realizzazione di Dio (l’infinito). L’Assoluto, per Hegel si identifica con un soggetto spirituale in divenire, di cui tutto ciò che esiste è “momento” o “tappa” di realizzazione. Dire che la realtà non è “sostanza” ma “soggetto”, significa dire che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto-produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (lo Spirito) e le sue attività più alte (arte, religione e filosofia) giunge a rivelarsi per quello che è veramente. Nelle Lezioni di filosofia della storia afferma chelo spirito si realizza nella storia, è ovviamente possibile una spiegazione razionale della vicenda storica, e quindi una vera e propria filosofia della storia. E qui ben si comprende la celebre affermazione hegeliana “tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale”. Hegel afferma una tesi davvero singolare: “La ragione governa il mondo.” E spiega: siccome la storia è opera dello spirito oggettivo, quindi dello stesso Assoluto, e sappiamo che questo non può agire che in modo razionale, “osservando la vicenda di individui, popoli e stati, che per un certo tempo esistono…e quindi scompaiono, è la categoria del mutamento.”  Lo Spirito del mondo, lo stesso Assoluto, si incarna volta per volta nei singoli popoli, formando in ciascuno lo spirito del popolo, diventando così il soggetto che esprime la civiltà, il costume, il contributo di ciascun popolo alla storia del mondo. In ogni fase storica c’è un popolo che domina, anche attraverso la guerra, su tutti gli altri: ciò significa che in quel momento quel popolo è lo Spirito del mondo. E quando la missione sarà compiuta, quando quel popolo sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito lo abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo, e così via, in un processo progressivo, dove chi prevale è sempre migliore di chi soccombe. Credono di agire liberamente, in realtà agiscono spinti dall’ineffabile spirito motore del mondo. Per Hegel, alcuni individui non fanno che conservare i costumi del proprio popolo, e questi sono la maggioranza; altri, una piccola minoranza, lo trasformano, facendo progredire la storia del mondo. Hegel li chiama “individui cosmico-storici“. Sono i grandi protagonisti della storia, come Alessandro, Cesare e Napoleone. Tutti, gli uomini, grandi o piccoli che siano, secondo Hegel, contribuiscono a realizzare fini ad essi estranei, secondo il disegno superiore che si serve di loro anche calpestando i loro fini particolari. Ecco come entra in gioco l’astuzia della Ragione, che governa il mondo in modo ovviamente provvidenziale. L’astuzia della ragione è quindi la capacità dello Spirito di usare la fiera delle umane vanità per dimostrare sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che realizza il regno di Dio in progresso.

Alla posizione hegeliana imperante, reagì con forza il danese Soren Kierkegaard che rivendicò prepotentemente l’importanza del singolo e della filosofia dell’esistenza. Il pensiero del filosofo danese appare tutto rivolto a dare conto dell’esistenza del soggetto umano concreto (il soggetto empirico, di contro all’enfasi idealista sulla soggettività trascendentale), a coglierne il senso, l’inquietudine e il destino sempre in bilico tra realizzazione e fallimento a seconda del rapporto che il singolo riesce ad instaurare con Dio ossia con l’infinito e l’eterno. Se per Hegel tutto ciò che accade è razionale e inseribile all’interno di un processo di sviluppo dello Spirito, Kierkegaard obietterà che “la vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”. Ciò che conta veramente, quindi, è il singolo e le scelte che egli si trova a fare nella sua vita quotidiana. La vita umana di per sé non soddisfa alcun criterio di razionalità e non realizza mai appieno se stessa, ma esige invece scelta e responsabilità. Se nella filosofia hegeliana, quindi, è importante il genere e non l’individuo, l’umanità e non questo o quell’uomo, nella filosofia di Kierkegaard, invece, conta l’individuo particolare rispetto al genere. L’esistenza è il regno della libertà, il luogo della possibilità e della scelta (Aut Aut è il titolo di una delle sue opere). Nell’analizzare le diverse possibilità di esistenza, Kierkegaard individua tra possibili scelte: la vita estetica, la vita etica e quella religiosa. Ed è proprio in quest’ultima dimensione che vede in Abramo il suo eroe, che l’uomo sperimenta il suo rapporto con l’Assoluto, l’Infinito. Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco e, proprio quando sta per farlo, viene bloccato da un messo divino. E sta proprio qui l’aggancio con l’Assoluto di cui la anche sfera etica manca. L’individuo si trova solo nella scelta, i parametri della morale umana sono sospesi e la fede appare come un saldo nell’assurdo. Il Dio di Abramo non è (come già aveva detto Pascal) quello dei filosofi, degli scienziati e dei teologi, ma è il Dio persona con cui si può dialogare abbandonando la civiltà. L’uomo religioso vive nel “momento”, ovvero nella riproposizione dell’istante, ma è un istante dotato di senso assoluto. La fede per Kierkegaard è ‘salto nell’assurdo’: presuppone il riconoscimento da parte dell’uomo dell’impotenza delle proprie forze e della contraddizione che gli è propria come essere umano, è scandalo: conduce ad un dissidio totale col mondo. Il rapporto di fede è un rapporto di solitudine tra Dio e l’uomo, è rischio: l’uomo non possiede nessuna certezza, nessuna garanzia, se non quella interiore, ed è posto di fronte al bivio (credere o non credere). è soluzione del paradosso dell’esistenza: è l’unica possibilità di salvezza ma, nello stesso tempo, essa è un dono divino. Cristo è assunto come simbolo stesso del paradosso, mentre nella filosofia hegeliana l’incarnazione diveniva simbolo dello Spirito che si manifesta nel mondo. La filosofia del danese non ebbe molto successo fra i suoi contemporanei, ma lo ebbe invece nel ‘900, quando diventò uno dei punti di riferimento dell’esistenzialismo, quando l’uomo dopo le esperienze delle guerre mondiali, delle trincee, dei campi di concentramento sperimento la sua infinita solitudine nei confronti di un’esistenza che doveva ricercare il suo senso allora non più tanto scontato.

[1] Plotino, Enneadi, I, 6

Cosimo Lamanna