Pitagora e l’immortalità dell’anima

Esiste una parte di noi che non perisce? L’anima è immortale? Sono domande senza tempo e al momento senza risposta, che da sempre hanno affascinato l’uomo. La questione dell’immortalità dell’anima trova spazio anche nel pensiero di uno dei filosofi più noti e allo stesso tempo misteriosi, dell’antichità, noto anche per il un famoso teorema di matematica: stiamo parlando di Pitagora. Nacque a Samo, tra il 571 e il 570 a.C. e morì attorno al 497-96 a.C. Visse a Crotone, città nella quale fondò la sua scuola di filosofia a carattere esoterico (si trattava di una comunità chiusa di persone che non divulgavano le loro dottrine) e religioso (la filosofia veniva ritenuta una sapienza derivata da quella divina e finalizzata alla salvezza dell’uomo). Le Tavole Palatine di Metaponto, ovvero i resti di un tempio dorico del VI secolo a.C. dedicato alla divinità greca Hera, era anche chiamato “Scuola di Pitagora”, in memoria del grande filosofo. Pitagora credeva nell’immortalità dell’anima e nella trasmigrazione, o reincarnazione dopo la morte, fino a quando l’anima non si fosse purificata. Si tratta di temi tipici dell’orfismo, un movimento religioso ispirato al mitico poeta Orfeo, propugnatore, nel mito, di un ideale di vita ascetico che prevedeva l’astensione dalle carni e dai piaceri sensibili allo scopo di purificare l’anima e prepararla ad una trasmigrazione in un altro corpo per iniziare una vita migliore. L’idea di una metempsicosi, trasmigrazione delle anime, che si reincarnano in vite sempre più nobili per sconfiggere la malvagità propria della natura umana, diviene patrimonio comune non solo dei pitagorici, ma anche di filosofi posteriori come Platone. Accanto a ciò, gli orfici trasmettono al pitagorismo la tendenza esoterica a costituire comunità di iniziati che sono tenuti al più rigoroso silenzio sulle dottrine della scuola. Compito della filosofia, quindi, è quello di liberare, attraverso il sapere, l’anima dalla prigione del corpo.